Nel suo saggio presente nel catalogo della mostra Anish Kapoor. Untrue Unreal edito da Marsilio Arte, Francesca Borgo, professore alla School of Art History all’Università di St Andrews, ricostruisce la ricerca rinascimentale per la creazione di una statua che viva di vita propria e l’ampio uso della cera, sia nella tradizione artistica fiorentina che nell’arte di Anish Kapoor.
La grande massa di cera color sangue si muove tra le porte del palazzo. Svayambhu (2007), “sorto da sé”, avanza lento, senza preoccuparsi della propria mole: come mosso da una volontà di vita cieca alle circostanze – alla nostra presenza, a quelle porte in cui non è detto riesca a infilarsi – e in questo spingersi prende forma, scorticato dall’attrito con pareti, pavimento e stipiti, lasciando dietro di sé una scia amorfa di macchie. Plasmato non da mano umana, ma dall’accidente: scultura senza autore, senz’altra volontà se non la propria. È un oggetto che simula di essere soggetto; un corpo che si muove, che sporca e lascia tracce, nasce e muore. Il suo scopo non è la verità ma l’artificio, l’illusione dell’inanimato che prende vita: untrue, unreal.
Quella della statua che si anima e vive di vita propria è una favola impossibile che si racconta spesso. Da Pigmalione in avanti, creare la vita dove la vita manca, suggerendola attraverso il movimento, è una vecchia sfida dell’arte occidentale. L’arte «in sé non è viva ma isprimitrice di cose vive senza vita», scrive Leonardo (1452-1519); l’opera che non riesce a creare un’illusione di movimento nella materia inerte è «due volte morta», nella realtà e nella finzione, «se non le si aggiunge la vivacità dell’atto essa riman morta la seconda volta». Per questo l’artista deve cancellare ogni traccia del proprio fare, l’evidenza della mano e in particolare la visibilità del segno, in modo che l’opera appaia miracolosamente, appunto, “sorta da sé”.
La capacità di moto proprio è – lo dice Aristotele – segnale inconfondibile di un essere vivente. Non è però solo il movimento a rendere Svayambhu un discendente del sogno rinascimentale di animazione dell’inanimato. Più di qualsiasi altro mezzo scultoreo, la cera è infatti legata ai processi della vita: nascita, metamorfosi, dissoluzione, rigenerazione. Al tempo stesso calda e fredda, flessibile e solida, amorfa e polimorfa, la cera sovverte l’aspettativa di immutabilità generalmente associata alla scultura. Risponde al nostro tocco, si scalda e modella: reagisce, e quindi è viva; anche nella storia ovidiana di Pigmalione, lo scultore percepisce l’animazione della statua sotto le dita come cera che si ammorbidisce al sole (Ovidio, Metamorfosi, X, 284). L’innata predisposizione al cambiamento, la docilità e l’arrendevolezza, la capacità metamorfica, hanno a lungo assicurato alla cera un posto di riguardo nella produzione artistica occidentale, in particolare come simulacro intero o parziale del corpo umano, soprattutto nei suoi stati di malattia, morte e lacerazione della carne.
Nel Rinascimento sono di cera le maschere mortuarie e gli ex voto che riproducono singole parti del corpo, malate o già risanate. Ma soprattutto – e in particolare a Firenze – sono di cera le effigi votive che un tempo, ammassate a migliaia, riempivano il santuario della Santissima Annunziata; sempre a Firenze, la cera sarà poi il materiale dei modelli anatomici che faranno del museo della Specola il centro della ceroplastica scientifica, quelle Veneri aperte, sventrate, indagate nei segreti delle viscere.
Celebrata già da Plinio per le sue qualità ultra mimetiche, soprattutto quando mischiata a pigmenti colorati, in particolare il rosso (Naturalis historia, XXI, 49), la forza della cera è tale da poter fare addirittura a meno della verosimiglianza. La donazione di una massa di cera grezza, non lavorata e non figurata, corrispondente al peso o alla statura del corpo sofferente e in sua sostituzione, descritta nelle fonti come mensuratio o ponderatio corporis, è un rituale votivo noto almeno dalla fine del XIII secolo. Esposti nei santuari assieme agli ex voto antropomorfi e assolutamente equivalenti dal punto di vista funzionale, questi blocchi di cera parlano del potere della materia stessa nel suggerire la vita, anche senza l’ausilio della mimesi. Presentano ciò che siamo senza immagine, come pura sostanza corporea. Come Svayambhu, la massa di cera non rappresenta un corpo ma lo presenta, attraverso una relazione che fa dell’affinità al vivente una qualità intrinseca del materiale, qualità che non ha nulla a che vedere con una scelta stilistica più o meno figurativa.
Non c’è verità in questa operazione: la cera è per antonomasia il materiale della finzione, dell’artificio, del fingersi altro da sé. È la materia dell’inganno – untrue, unreal – ancora di più quando utilizzata con esiti iperrealistici da artisti e artigiani.
Il testo è un estratto dal catalogo Anish Kapoor. Untrue Unreal, curato da Arturo Galansino e pubblicato da Marsilio Arte in occasione della mostra di Palazzo Strozzi. Puoi acquistare il catalogo al bookshop di Palazzo Strozzi, in libreria oppure negli store online.