Nel suo saggio presente nel catalogo della mostra Anish Kapoor. Untrue Unreal edito da Marsilio Arte, Rachel Boyd, curatrice del Dipartimento di Scultura rinascimentale al Victoria & Albert Museum di Londra, indaga la nostra visione distorta dell’immagine che Firenze offriva nel Rinascimento, evidenziando come le sculture di Kapoor ci invitino a riflettere su questa storia locale e a considerare gli usi e le connotazioni dei pigmenti nella scultura rinascimentale.
Il colore è una caratteristica distintiva del tessuto urbano fiorentino. In una breve passeggiata per la città, lo spettatore si imbatte inevitabilmente in un’impressionate quantità di materiali, dalla pietra serena preferita da Brunelleschi al marmo verde di Prato utilizzato per la facciata romanica di San Miniato al Monte, dal porfido della Giustizia in cima alla colonna di piazza Santa Trinita alle superfici scintillanti di vetro, lapislazzuli, oro e marmo bianco del tabernacolo medievale realizzato da Orcagna per la Madonna di Orsanmichele.
Basilica di San Miniato al Monte, Firenze, XI-XIII secolo. Foto Scala, Firenze
Quello che vediamo oggi, tuttavia, è solo un’eco della centralità del colore nella cultura artistica della Firenze rinascimentale, poiché molte delle superfici dipinte di sculture e edifici si sono consumate con il tempo e con l’uso o sono state intenzionalmente private delle loro tonalità originali. Le vibranti sculture di pigmenti di Anish Kapoor, una selezione delle quali è inclusa nella mostra in corso a Palazzo Strozzi, invitano a riflettere su questa storia locale e a considerare gli usi e le connotazioni dei pigmenti nella scultura rinascimentale in particolare. Si tratta di una storia che solo ora inizia a essere esplorata, e in alcuni casi celebrata, dagli studiosi del periodo, anche se i pregiudizi nei confronti della scultura policroma – spesso liquidata come poco sofisticata, innaturale, troppo religiosa, sentimentale, appariscente o kitsch – rimangono radicati nella disciplina della storia dell’arte. I pigmenti colorati sono ancora considerati competenza esclusiva dei pittori della prima età moderna, non di coloro che creavano opere tridimensionali.
Scultori famosi come Lorenzo Ghiberti, Donatello e Luca della Robbia lavoravano con il colore in diversi modi. Tutti e tre avevano ricevuto un’educazione da orafi e la loro formazione li rendeva abili non solo nel disegno, nella realizzazione di modelli in cera e argilla come pure nel taglio e nella lucidatura di pietre preziose, ma anche nella smaltatura, una tecnica con cui sostanze vetrose vengono legate a un substrato attraverso l’uso del calore per creare superfici dai colori abbaglianti e riflettenti. Donatello usò una gamma di materiali colorati – dalla cera pigmentata rossa e verde ai frammenti di ceramica smaltata – per creare fondi riflettenti dai colori vivaci per i suoi rilievi in terracotta e marmo.
Donatello, Supplizio di san Giovanni Evangelista nell’olio bollente, 1435-1440 circa, Firenze, Basilica di San Lorenzo, Sagrestia Vecchia. Opera Medicea Laurenziana, Firenze. Foto Opificio delle Pietre Dure di Firenze. Su concessione del Ministero della Cultura
Se Donatello sperimentava in modo costante con i materiali, creando una sorprendente gamma di effetti visivi, fu però il suo contemporaneo Luca della Robbia a realizzare una fusione quasi completa tra arte pittorica e scultorea. Negli anni trenta del Quattrocento, quando già vantava una carriera di successo nella lavorazione del marmo e del bronzo, egli sviluppò una nuova e particolare forma di scultura in terracotta rivestita di smalti colorati.
Luca della Robbia, La visitazione, particolare del drappeggio della Vergine, 1440 circa, Pistoia, Chiesa di San Giovanni Fuorcivitas. Foto Rachel Boyd. Su concessione dell’Ufficio Beni Culturali della Diocesi di Arezzo Cortona Sansepolcro.
Gli strati di colore – pigmenti mescolati per creare smalti, fusi con l’argilla mediante il fuoco e poi ulteriormente abbelliti con una fragile vernice rossa e, in alcuni casi, con l’oro, nonché con gioielli e abiti talvolta aggiunti dai devoti – invitano quindi lo spettatore, oggi come nel Rinascimento, a considerare alcune delle stesse domande suscitate dalle opere di Kapoor: come chiedeva Homi Bhabha più di dieci anni fa, la “pelle” dell’oggetto è sinonimo o emanazione naturale della forma o piuttosto un’aggiunta instabile e inorganica?
Il testo è un estratto dal catalogo Anish Kapoor. Untrue Unreal, curato da Arturo Galansino e pubblicato da Marsilio Arte in occasione della mostra di Palazzo Strozzi. Puoi acquistare il catalogo al bookshop di Palazzo Strozzi, in libreria oppure negli store online.
Nel suo saggio presente nel catalogo della mostra Anish Kapoor. Untrue Unreal edito da Marsilio Arte, Francesca Borgo, professore alla School of Art History all’Università di St Andrews, ricostruisce la ricerca rinascimentale per la creazione di una statua che viva di vita propria e l’ampio uso della cera, sia nella tradizione artistica fiorentina che nell’arte di Anish Kapoor.
La grande massa di cera color sangue si muove tra le porte del palazzo. Svayambhu (2007), “sorto da sé”, avanza lento, senza preoccuparsi della propria mole: come mosso da una volontà di vita cieca alle circostanze – alla nostra presenza, a quelle porte in cui non è detto riesca a infilarsi – e in questo spingersi prende forma, scorticato dall’attrito con pareti, pavimento e stipiti, lasciando dietro di sé una scia amorfa di macchie. Plasmato non da mano umana, ma dall’accidente: scultura senza autore, senz’altra volontà se non la propria. È un oggetto che simula di essere soggetto; un corpo che si muove, che sporca e lascia tracce, nasce e muore. Il suo scopo non è la verità ma l’artificio, l’illusione dell’inanimato che prende vita: untrue, unreal.
Quella della statua che si anima e vive di vita propria è una favola impossibile che si racconta spesso. Da Pigmalione in avanti, creare la vita dove la vita manca, suggerendola attraverso il movimento, è una vecchia sfida dell’arte occidentale. L’arte «in sé non è viva ma isprimitrice di cose vive senza vita», scrive Leonardo (1452-1519); l’opera che non riesce a creare un’illusione di movimento nella materia inerte è «due volte morta», nella realtà e nella finzione, «se non le si aggiunge la vivacità dell’atto essa riman morta la seconda volta». Per questo l’artista deve cancellare ogni traccia del proprio fare, l’evidenza della mano e in particolare la visibilità del segno, in modo che l’opera appaia miracolosamente, appunto, “sorta da sé”.
La capacità di moto proprio è – lo dice Aristotele – segnale inconfondibile di un essere vivente. Non è però solo il movimento a rendere Svayambhu un discendente del sogno rinascimentale di animazione dell’inanimato. Più di qualsiasi altro mezzo scultoreo, la cera è infatti legata ai processi della vita: nascita, metamorfosi, dissoluzione, rigenerazione. Al tempo stesso calda e fredda, flessibile e solida, amorfa e polimorfa, la cera sovverte l’aspettativa di immutabilità generalmente associata alla scultura. Risponde al nostro tocco, si scalda e modella: reagisce, e quindi è viva; anche nella storia ovidiana di Pigmalione, lo scultore percepisce l’animazione della statua sotto le dita come cera che si ammorbidisce al sole (Ovidio, Metamorfosi, X, 284). L’innata predisposizione al cambiamento, la docilità e l’arrendevolezza, la capacità metamorfica, hanno a lungo assicurato alla cera un posto di riguardo nella produzione artistica occidentale, in particolare come simulacro intero o parziale del corpo umano, soprattutto nei suoi stati di malattia, morte e lacerazione della carne.
Nel Rinascimento sono di cera le maschere mortuarie e gli ex voto che riproducono singole parti del corpo, malate o già risanate. Ma soprattutto – e in particolare a Firenze – sono di cera le effigi votive che un tempo, ammassate a migliaia, riempivano il santuario della Santissima Annunziata; sempre a Firenze, la cera sarà poi il materiale dei modelli anatomici che faranno del museo della Specola il centro della ceroplastica scientifica, quelle Veneri aperte, sventrate, indagate nei segreti delle viscere.
Lodovico Cigoli, figura maschile detta Lo scorticato, 1598-1600, Firenze, Museo del Bargello. Photo Luisa Ricciarini/Bridgeman Images
Celebrata già da Plinio per le sue qualità ultra mimetiche, soprattutto quando mischiata a pigmenti colorati, in particolare il rosso (Naturalis historia, XXI, 49), la forza della cera è tale da poter fare addirittura a meno della verosimiglianza. La donazione di una massa di cera grezza, non lavorata e non figurata, corrispondente al peso o alla statura del corpo sofferente e in sua sostituzione, descritta nelle fonti come mensuratio o ponderatio corporis, è un rituale votivo noto almeno dalla fine del XIII secolo. Esposti nei santuari assieme agli ex voto antropomorfi e assolutamente equivalenti dal punto di vista funzionale, questi blocchi di cera parlano del potere della materia stessa nel suggerire la vita, anche senza l’ausilio della mimesi. Presentano ciò che siamo senza immagine, come pura sostanza corporea. Come Svayambhu, la massa di cera non rappresenta un corpo ma lo presenta, attraverso una relazione che fa dell’affinità al vivente una qualità intrinseca del materiale, qualità che non ha nulla a che vedere con una scelta stilistica più o meno figurativa.
Non c’è verità in questa operazione: la cera è per antonomasia il materiale della finzione, dell’artificio, del fingersi altro da sé. È la materia dell’inganno – untrue, unreal – ancora di più quando utilizzata con esiti iperrealistici da artisti e artigiani.
Clemente Susini, La sventrata (det.), 1781-1782, Firenze, La Specola, Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze. Photo Raffaello Bencini/Bridgeman Images
Il testo è un estratto dal catalogo Anish Kapoor. Untrue Unreal, curato da Arturo Galansino e pubblicato da Marsilio Arte in occasione della mostra di Palazzo Strozzi. Puoi acquistare il catalogo al bookshop di Palazzo Strozzi, in libreria oppure negli store online.
Nel suo saggio presente nel catalogo della mostra Anish Kapoor. Untrue Unreal edito da Marsilio Arte, Tommaso Mozzati, professore di Storia dell’Arte Moderna all’Università degli Studi di Perugia, evidenzia la secolare vocazione della città di Firenze per la scultura.
Da Charles de Brosses a Joshua Reynolds, da Stendhal a John Ruskin, per arrivare alle esperienze sempre più frequenti della fine del secolo, il centro toscano si rispecchia nella sua galleria di sculture, venendo a identificarsi con quelle immagini, modello espressivo d’assoluta preminenza, testimonianza solida d’una funzione artefatta e archetipica.
Il Marchese de Sade perso nell’infilata delle sale della Galleria degli Uffizi – in Toscana nell’estate-autunno 1775 – avrebbe riunito nei carnets del suo Voyage d’Italie, il ricordo delle antichità restaurate da Michelangelo a quello delle Veneri anatomiche acquisite dal granduca, marmo contro cera, dividendo il racconto tra il capitolo dedicato alla galleria e quello sui moeurs degli abitanti, senza trascurare Gli effetti della peste di Gaetano Giulio Zumbo:
[…] si vede un sepolcro pieno d’innumerevoli cadaveri nei quali è possibile osservare i diversi gradi della decomposizione, dal cadavere di un uomo appena morto a quello completamente divorato da vermi.
Tale ribaltamento dell’immagine di Firenze, riscritta all’alba della modernità nella materia stessa dei suoi indici illustri, risuona con l’invito a un artista come Anish Kapoor, in città per la prima, grande mostra monografica, concepita tracciandone il cursus in opere più o meno recenti, dalle superfici immateriali di Newborn (2019) al rosso intenso, in assottigliamento perpetuo, dell’istallazione Svayambhu (2007), dai solidi di To Reflect an Intimate Part of the Red (1981) all’organico Tongue Memory (2016). Da sempre infatti Kapoor sottolinea l’ambizione di cercare, attraverso il lavoro sul medium, «più di una mera presenza fisica» (nel rispetto della categoria del truly made o «fatto realmente», tratteggiata nel 1998 da Homi K. Bhabha «come l’incontro del materiale con il non-materiale»), il desiderio di tradurre, in «ogni oggetto concreto […] un pari non-oggetto, misterioso».
Nella scarsezza di rimandi espliciti agli Old Masters del pantheon occidentale, è in questo senso significativo che il titolo imposto alla colossale realizzazione per la Turbine Hall della Tate Modern inaugurata nell’ottobre del 2002 nell’ambito della Unilever Series rappresenti invece un omaggio inequivocabile. Stando a quanto sottolineato da Thomas Zaunschirm, l’idea di chiamarla Marsyas (2002) fu suscitata in Kapoor dal ricordo della tela di Tiziano consacrata al supplizio del sileno, un capolavoro estremo conservato al Museo Arcivescovile di Kroměříž, che avrebbe fatto un passaggio a Londra per la mostra monografica aperta appena qualche mese dopo negli spazi della National Gallery. Un mito sanguinoso di “svuotamento”, di “scarnificazione”, quello centrato sul supplizio imposto da Apollo al suo concorrente in una gara musicale; ma anche il richiamo a un’assenza, a un negativo, al “non oggetto” costituito dalla pelle di Marsia, come allusa nella membrana in PVC usata da Kapoor per la sua scultura, gonfia di vuoto e d’ombra.
Non a caso, riferendosi al Rinascimento in una rara dichiarazione sul tema condivisa con Donna De Salvo nel 2002, Kapoor avrebbe affermato:
Come oggetto, cercavo di collegarlo alla storia dell’arte e a uno schema mitologico che mi interessa perché oscuro. […] lo trasforma in un corpo. Rovescia lo spazio, non solo quello dell’immaginazione, ma anche quello delle viscere.
È in questa convinzione che il percorso dell’artista avverte la creazione artistica come un passaggio verso «il non familiare – unheimlich – l’insoluto, qualcosa di restituito allo spazio psichico, allo spazio psicologico», laddove il concetto freudiano, quello del “perturbante”, suggerisce «uno spazio che è interiore», rendendo ogni opera un diaframma varcato dallo sguardo di chi le sta di fronte, in grado di ripensarsi attraverso di essa con inedita lucidità.
Il testo è un estratto dal catalogo Anish Kapoor. Untrue Unreal, curato da Arturo Galansino e pubblicato da Marsilio Arte in occasione della mostra di Palazzo Strozzi. Puoi acquistare il catalogo al bookshop di Palazzo Strozzi, in libreria oppure negli store online.
Nel suo saggio presente nel catalogo della mostra Anish Kapoor. Untrue Unreal edito da Marsilio Arte, Dario Donetti, professore di Storia dell’Architettura all’Università degli Studi di Verona, esplora il rapporto tra Palazzo Strozzi, che accoglie l’esposizione, e l’arte di Kapoor.
L’architettura del Rinascimento, a partire dal suo avvio eroico nella Firenze del XV secolo, è nell’intendimento comune l’espressione di una sensibilità spaziale improntata a misura, armonia, organicità. Se vi è un’architettura che può confermarlo, che legittimamente si può riconoscere come un prodotto di quell’idealismo di forme e spazio, è proprio il palazzo progettato per Filippo Strozzi, sul finire del Quattrocento, da Giuliano da Sangallo. Allo stesso tempo, questa dimora monumentale, frutto di ambizioni sociali che sconvolsero il paesaggio urbano fiorentino, è il pretesto per un sottile esercizio di rappresentazione, svolto principalmente su una pelle architettonica felicemente disconnessa dai volumi che riveste. Perciò, per i significati spaziali di cui può caricarsi, diventa particolarmente evocativo il dialogo tra un edificio così radicato nell’immaginario dell’architettura rinascimentale e l’arte di Anish Kapoor, che a più riprese ha messo alla prova i limiti geometrici della scatola muraria, insistendo sulle ambiguità dei rapporti di scala, esplorando soglie e terreni liminali, penetrando il potenziale illusorio della membrana e del rivestimento.
Palazzo Strozzi Foto Ela Bialkowska OKNOstudio
Le bugne scollate fanno capire che già nelle intenzioni del suo architetto la facciata fa da supporto a una forma di pura rappresentazione: una superficie da disegnare, anch’essa, come la carta; una pelle ambigua che dissimula il costruito e lascia campo all’illusorio o, quantomeno, all’imitazione di un altro da sé. In questo caso, della naturalità dell’architettura lapidea.
Il senso che Anish Kapoor ha dell’architettura ci mostra, con particolare eloquenza, come la pelle posta a rivestire gli oggetti di grande scala – sia che essa consista di membrane plastiche, come Leviathan (2011) o di metalli più o meno politi, pensando a Cloud Gate (2004) o a Memory (2008) – ne possa mascherare l’effettiva consistenza in termini di massa, alterando sostanzialmente la percezione che il corpo ha dello spazio architettonico o della scala dell’intorno urbano. Ma non è forse così per buona parte dell’architettura del Rinascimento e, più in generale, per la stagione del classicismo?
Anche nell’architettura del Rinascimento, di Sangallo e di Cronaca, e della stessa casa degli Strozzi, sopravvive un elemento in cui l’ornato coincide con la struttura, che disinnesca l’ambiguità della lingua degli ordini, o piuttosto la rivela, appunto, per via di contrasto. È la colonna, lemma centrale del discorso classicista: tanto più se monolitica, cioè matericamente destinata a essere supporto, in modo da affermare senza ambiguità la sua natura tettonica, che è il significato primario di questo segno condiviso.
Nel cortile del palazzo solidi cilindri di pietra si stagliano contro il vuoto per sostenere il pieno dei muri intonacati e, proprio perché isolati, esaltano le origini di una lingua che è ormai divenuta allusione. Danno, anche, la misura dell’edificio: diventano il metro per apprezzarne la scala, per indirizzare (o forzare?) la lettura che i sensi possono produrre dello spazio. Così, come la colonna senza fine, Endless Column (1992), che attraversa in tutta la sua altezza una delle sale angolari di Palazzo Strozzi, nel Rinascimento gli ordini mantengono la loro capacità di plasmare, sul piano della percezione, i rapporti dimensionali tra l’osservatore e l’edificio; di riconoscere nel corpo lo strumento per fare esperienza dei misteri della scala, come già dell’illusione carica di significati della sua architettura.
Il testo è un estratto dal catalogo Anish Kapoor. Untrue Unreal, curato da Arturo Galansino e pubblicato da Marsilio Arte in occasione della mostra di Palazzo Strozzi. Puoi acquistare il catalogo al bookshop di Palazzo Strozzi, in libreria oppure negli store online.
La mostra Yan Pei-Ming. Pittore di storie dedicata al grande artista franco-cinese, è stata l’occasione perfetta per ampliare l’offerta educativa della Fondazione Palazzo Strozzi sperimentando un nuovo formato di laboratorio dedicato agli adolescenti nel periodo estivo. Il progetto Estate in pittura (10-14 luglio 2023), sostenuto dal Gruppo Beyfin S.p.A., ha permesso a più di cento ragazze e ragazzi tra i 13 e i 17 anni di confrontarsi con le grandi tele di Yan Pei-Ming e scoprire in prima persona le possibilità espressive della pittura. Autoritratti, paesaggi notturni, ritratti di famiglia, personaggi storici e animali della tradizione cinese sono stati il panorama visivo di cinque giornate durante le quali si sono alternati momenti di visita nella sale della mostra e momenti di lavoro singolo e collettivo in laboratorio, guidati nell’esperienza da educatori museali e dell’artista Anna Capolupo.
Martino Margheri (Dipartimento Educazione Fondazione Palazzo Strozzi) in dialogo con Anna Capolupo
Conosciamo il lavoro di Anna Capolupo da diversi anni, il suo approccio alla pittura e all’insegnamento ci piace molto e abbiamo ritenuto che sarebbe stata la persona adatta con cui sviluppare un percorso rivolto agli adolescenti. La conversazione con Anna ha portato alla creazione di Estate in pittura: cinque giornate in cui l’arte del dipingere è stata affrontata da più prospettive. Ci siamo lasciati ispirare dalla mostra di Yan Pei-Ming e ogni giorno abbiamo esplorato un particolare tema: il ritratto e l’autoritratto, la pittura di grandi dimensioni, il rapporto tra colore ed emozioni, luce e oscurità, il valore simbolico degli animali.
Estate in pittura, Palazzo Strozzi, 2023. Foto Sara Sassi
MM Nel contesto della mostra dedicata a Yan Pei-Ming abbiamo sviluppato un laboratorio estivo indirizzato agli adolescenti. Progetti del genere richiedono un confronto con il progetto curatoriale, le opere esposte, tenendo conto delle caratteristiche dei partecipanti. Come racconteresti l’esperienza di Estate in pittura?
AC È stata un’esperienza diretta con la mia materia: la pittura. Era importante che piacesse, volevo riuscire a coinvolgere le ragazze e i ragazzi il più possibile, in modo che fossero totalmente presi da quello che avrebbero fatto. Quando insegni a scuola ti confronti per un anno sempre con gli stessi ragazzi, con Estate in pittura ogni giorno c’era un gruppo diverso e questo elemento ha reso l’attività molto stimolante, anche se ha contribuito a crearmi qualche preoccupazione. All’inizio non sapevo chi avessi davanti e cosa sarebbe potuto succedere, partivo sempre con una leggera apprensione, poi nel corso dell’attività lasciavo che le cose fluissero più liberamente, alla fine mi sono lasciata sorprendere dai lavori che i ragazzi sono stati in grado di realizzare. È stato molto intenso. La cosa più bella è stata il rapporto diretto con i quadri di un pittore importante come Yan Pei-Ming e allo stesso tempo ho colto l’occasione per mostrare tante opere di altri artisti che lavorano con la pittura creando un gioco di rimandi e relazioni.
Estate in pittura, Palazzo Strozzi, 2023. Foto Sara Sassi
Estate in pittura, Palazzo Strozzi, 2023. Foto Sara Sassi
MM Ogni giornata iniziava con un percorso tra le opere. Come hanno reagito i ragazzi davanti all’osservazione di questi quadri?
AC Le ragazze e i ragazzi erano magnetizzati e sconvolti dalla grandezza delle opere. Non avevamo mai visto una dimensione materica della pittura così forte. Poi oltre all’aspetto materiale sono emerse osservazioni inerenti ai contenuti dei dipinti, soprattutto quando abbiamo osservato i ritratti di Putin e Zelensky. Qualcuno ha avuto una risposta più sentimentale alla pittura di Pei-Ming, soprattutto osservando l’enorme ritratto della mamma Ma mère (2018). Devo dire che tutta la sala dedicata alla memoria della madre è quella che li ha maggiormente coinvolti emotivamente.
Estate in pittura, Palazzo Strozzi, 2023. Foto Sara Sassi
MM In fase di progettazione abbiamo individuato cinque percorsi da affrontare in altrettante giornate di lavoro: ritratto e autoritratto; pittura monumentale; pittura da indossare; notturno; animali simbolici. Quali tra queste giornate ha avuto un particolare riscontro?
AC In occasione di “pittura da indossare” c’è stato un grande coinvolgimento, la partecipazione a quella giornata è stata molto mirata: si erano iscritti ragazze e ragazzi molto preparati, che sapevano già cosa avrebbero voluto dire. Io li ho guidati, ma in maniera minore rispetto alle altre giornate. Mi ha fatto piacere diventare il mezzo con il quale potessero esprimersi. Uscire dal formato della tela o dai confini della carta li ha stimolati molto, è stata una giornata molto intensa, sono anche emersi temi sulle disuguaglianze di genere, violenza sulle donne.
Estate in pittura, Palazzo Strozzi, 2023. Foto Sara Sassi
Estate in pittura, Palazzo Strozzi, 2023. Foto Sara Sassi
Estate in pittura, Palazzo Strozzi, 2023. Foto Sara Sassi
MM Con più giorni a disposizione ci sono altri temi legati alla pittura che avresti voluto esplorare?
AC Probabilmente mi sarei dedicata alla natura morta e avrei lavorato anche sul sogno in quanto sono temi che affronto molto nel mio lavoro. Speravo che qualcuno, portandomi le fotografie preparatore della giornata dedicata ai notturni arrivasse con una natura morta, ma non è accaduto, hanno tutti portato paesaggi notturni. Sì, quella sarebbe stata una bella estensione ai temi che abbiamo trattato.
MM Durante lo svolgimento dei laboratori le ragazze e i ragazzi erano molto concentrati, totalmente assorti nella loro produzione. Credi ci sia stato qualcosa in particolare che abbia favorito questa situazione?
AC Il tempo è stata una componente importante: un tempo preciso entro cui svolgere l’attività rende tutti molto più concentrati. Probabilmente ha aiutato anche indirizzare verso temi ben precisi ed esplicitare le richieste in maniera diretta. Nonostante i partecipanti cambiassero ogni giorno erano sempre tutti assorti nella produzione; credo che gli adolescenti non siano abituati a questa modalità di lavoro totalizzante, proprio per questo in un’occasione del genere cercano di tirare fuori il meglio di sé. Noi non abbiamo mai dato l’opportunità per distrarsi, c’erano delle richieste precise e tempi da rispettare. Chi si era iscritto al laboratorio aveva deciso di dedicare quel tempo alla pittura, si sono sentiti liberi di farlo scegliendo di lavorare consapevolmente.
Estate in pittura, Palazzo Strozzi, 2023. Foto Sara Sassi
MM La tua pratica artistica si alterna all’insegnamento a scuola, che è un contesto di educazione formale. A Palazzo Strozzi c’è la possibilità di confrontarsi con l’arte in modo diretto, secondo altre modalità. Secondo la tua esperienza come metteresti in relazione i due diversi ambienti nella pratica educativa?
AC I musei e le scuole dovrebbero essere più vicini nella quotidianità, soprattutto i licei artistici. Nelle scuole servirebbero degli spazi in cui lavorare direttamente con gli artisti, innescare un coinvolgimento più profondo. È quello che manca di più: sentirci vicini agli artisti, alle mostre, osservare le opere dal vero. Questo modello di laboratorio può aiutare molto i ragazzi e permette loro di far emergere aspetti che rimangono sopiti e inesplorati. A scuola lavoriamo per obiettivi e la parte più importante spesso non è la qualità del lavoro, ma la capacità di rimanere aderenti alla traccia. Le modalità che proponi devono essere uguali per tutti, tenendo conto dei limiti fisici degli spazi e delle attrezzature disponibili, inoltre gli studenti devono essere giudicati, pertanto devono presentare un progetto aderente a canoni ben precisi e questo ti richiede di indirizzarli. Tutto questo è molto diverso rispetto a una pratica artistica che si nutre di libertà. La scuola dovrebbe imparare a integrare maggiormente questo aspetto.
Estate in pittura, Palazzo Strozzi, 2023. Foto Sara Sassi
Estate in pittura, Palazzo Strozzi, 2023. Foto Sara Sassi
MM Da artista che utilizza prevalentemente la pittura com’è stato confrontarsi con le tele di Yan Pei-Ming?
AC Di Yan Pei-Ming invidio le dimensioni! È un pittore che ho guardato molto negli anni dell’Accademia, da giovane pittrice non avevo spazi per fare cose del genere e mi rendevo conto dell’immenso lavoro. Oggi è stato uno strano confronto: tecnicamente non è una pittura che seguo con particolare attenzione, ma è stato un artista che ha segnato la mia formazione. Mi ha scosso, guarda quanta forza puoi avere dipingendo. Mi sarebbe piaciuto vedere una mostra del genere molti anni fa a Firenze.
Estate in pittura, Palazzo Strozzi, 2023. Foto Sara Sassi
MM Estate in pittura potrebbe diventare un formato educativo a cadenza annuale. Nel panorama degli artisti italiani della tua generazione, chi vedresti bene nel ruolo di artista/educatore?
AC Alcuni artisti non riuscirebbero mai a stare in un’aula a parlare di pittura a qualcuno, per alcuni semplicemente stare in una situazione di condivisione con altri artisti è impensabile, figurati con dei ragazzi o dei bambini. In questo processo di condivisione devi riuscire a creare un rapporto di empatia, altrimenti non arrivi a smuovere niente. Se questo aspetto non fa parte del tuo carattere è molto difficile insegnare. Tra gli artisti della mia generazione ne conosco di molto bravi: Mattia Barbieri è un pittore e scultore molto comunicativo e anche la sua pratica è adatta all’insegnamento. Anche Matteo Coluccia, che lavora con la pittura, la performance e la scultura, ha un approccio multidisciplinare che gli permetterebbe di condurre esperienze di questo tipo. Monica Mazzone e Lucia Veronesi, che sono impegnate anche nell’insegnamento, hanno una pratica di lavoro che permette loro di creare un rapporto stimolante in un contesto educativo.
MM Anna grazie per questo scambio e il tempo che hai dedicato a questo progetto.
AC Grazie a voi.
Biografia
Anna Capolupo è nata a Lamezia Terme nel 1983, si diploma all’Accademia delle Belle Arti di Firenze nel 2008. Vive e lavora a Firenze. È vincitrice del Premio Behnoode Foundation, The Others art fair 2022, del Premio Combat Prize nel 2016 e finalista al Premio Terna del 2014. Nel 2019 è stata selezionata al programma di residenze presso LA CASAPARK Art Recidency di New York, la Residenza Facto di Montelupo Fiorentino e ha preso parte al Simposio di Pittura Landina presso Cars a Omegna e al Simposio di Pittura della Fondazione Lac o Le mon a San Cesario di Lecce. Collabora con diverse gallerie e spazi indipendenti sul territorio nazionale.
In occasione della mostra Yan Pei-Ming. Pittore di storie abbiamo chiesto ad Andrea Sceresini, giornalista freelance e autore di inchieste e reportage di guerra, di ispirarsi alle riproduzioni di Yan Pei-Ming delle copertine del «TIME» con Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky per descrivere il conflitto tra Russia e Ucraina, partendo dalla sua esperienza diretta sul campo. Andrea Sceresini è un giornalista freelance e ha seguito il conflitto in Ucraina fin dal 2014 per Rai, Sky, Mediaset, l’Espresso, la tv tedesca Rtl e altre testate. Come reporter ha lavorato anche in Venezuela, in Egitto e in Transnistria. Ha pubblicato, tra gli altri, il libro Ucraina, la guerra che non c’è (Baldini e Castoldi, 2022). L’articolo è accompagnato dalle foto di Alfredo Bosco, fotoreporter freelance che si occupa del conflitto in Ucraina.
Attenzione: alcune immagini potrebbero turbare i lettori.
I volti di Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky – messi l’uno di fronte all’altro in questi due trittici di Yan Pei-Ming – sono gli emblemi viventi del conflitto che dal 24 febbraio 2022 sta devastando l’Ucraina. Viste oggi, dalla nostra prospettiva, le posizioni di Mosca e quelle di Kiev appaiono assolutamente inconciliabili, proprio come i visi contrapposti dei due presidenti. Eppure, quando nel 2014 si iniziò a combattere nel Donbass, in pochi avrebbero immaginato un epilogo così catastrofico. Fino a pochi mesi prima, il separatismo filorusso nell’est dell’Ucraina era un fenomeno praticamente inesistente (il partito Doneckaja Respublika riusciva a portare in piazza, quando andava bene, una trentina di persone), e lo stesso valeva, dall’altra parte, per l’ultranazionalismo anti-moscovita. Il fatto è che russi e ucraini avevano sempre convissuto in pace: parlavano due lingue praticamente sovrapponibili, avevano la stessa religione e una storia comune che affondava le radici nell’antico impero degli zar.
Quando sono arrivato per la prima volta a Donetsk, nell’ottobre 2014, non era raro che all’interno della stessa famiglia ci fosse chi tifava per Kiev e chi per Mosca. La gente era tendenzialmente molto spaesata, e in tanti ancora si illudevano che tutto quell’affare si sarebbe risolto in tempi brevi e senza troppe conseguenze. Da allora, a colpi di propaganda – e di bombe, e di carri armati – il germe dello sciovinismo più brutale è stato seminato in abbondanza su entrambi i lati del fronte. A detta dei media moscoviti, gli ucraini sono tutti “nazisti”, mentre i telegiornali di Kiev hanno ribattezzato i russi con un termine decisamente più aulico: li chiamano “gli orchi”. In quest’ottica, anche le notizie di cronaca spicciola hanno subito una serie di sostanziali modifiche.
Ucraina; Voznesensk 2022. Attacco aereo effettuato da aerei russi all’alba su una base militare ucraina. Foto: Alfredo Bosco Ucraina; Kharkiv; 2022. Scuola per l’infanzia bombardata nella periferia di Kharkiv. Foto: Alfredo BoscoUcraina; Balaklija; 2022. Interni e dettagli di una casa bombardata all’ingresso della città di Balaklija. Foto: Alfredo BoscoUcraina; Avdiivka; 2022. Rifugiati ad Avdiivka in un rifugio nella parte est della città. Foto: Alfredo Bosco
Nel 2014, mentre ero a Donetsk, la città fu colpita dall’esercito ucraino: “I separatisti si bombardano da soli per dar la colpa ai nostri”, scrissero i giornali governativi. Un paio di mesi dopo, quando i russi tirarono sul mercato di Mariupol, i quotidiani del Cremlino titolarono esattamente allo stesso modo: “Gli ucraini si bombardano da soli per dar la colpa ai separatisti”. Il tutto suonava così estraniante da risultare quasi comico, ma la propaganda del resto è sempre stata allergica all’autoironia. Paradossalmente, coloro che meno di tutti digeriscono questo tipo di réclame bellicistica sono proprio quelli che la guerra la vedono più da vicino. Non ho mai conosciuto – salvo rare eccezioni – dei soldati che fossero entusiasti di ammazzare o farsi sparare addosso.
La Russia e l’Ucraina sono due Paesi molto poveri e molto corrotti, dove chiunque abbia qualche capitale da parte non ci pensa due volte a pagare un medico per farsi esentare dalla naja. Il risultato è che nelle trincee ci finiscono spesso i più disgraziati, i quali appena possono gettano a terra il fucile e cercano di tornarsene a casa. Lo scorso anno, sul fronte di Lyman, ha fatto notizia la storia di un intero reparto ucraino che aveva deciso di abbandonare la prima linea e di nascondersi in un bosco. Episodi simili accadono spesso anche sul lato russo: giusto qualche settimana fa ho intervistato un ex ufficiale di San Pietroburgo che pur di farsi rispedire nelle retrovie aveva convinto un suo sottoposto a sparargli un colpo di Kalashnikov nelle gambe.
Ucraina; Kharkiv; 2022. Oggetti tra le macerie di un edificio colpito ripetutamente dall’artiglieria dell’esercito russo nella periferia di Kharkiv. Foto: Alfredo Bosco
Per capire qualcosa in più sul famigerato esercito di Putin, nell’ottobre 2022 sono volato in Buriazia, nella Siberia più profonda, che è il luogo da cui sono partiti molti dei volontari russi che hanno partecipato alle prime fasi dell’invasione. Non ho trovato villaggi popolati da guerrieri, ma solo tanta povertà e una lunga distesa di fosse fresche nei cimiteri. Ai soldati morti in Ucraina il governo locale corrisponde un risarcimento di 140mila dollari, che per chi vive nelle steppe attorno al lago Baikal è una cifra favolosa: in molti – banalmente – si sono arruolati per questa ragione.
Ucraina; Donbass; 2022. SPG-9 utilizzato contro la posizione russa. Frontiera del Donbass con i membri di Svoboda Rossii. La legione fa parte dell’esercito ucraino ed è composta da disertori dell’esercito russo e altri volontari provenienti dall’ex blocco sovietico. Foto: Alfredo Bosco
Ucraina; Kyiv (Kiev); 2022. Ponte di Irpin. Ogni giorno centinaia di abitanti di Irpin attraversano i resti del ponte per raggiungere la stazione ferroviaria della capitale ed evacuare. Il ponte è stato distrutto per impedire un’avanzata russa. Gli abitanti di Irpin sono costantemente sotto il fuoco dell’artiglieria russa. Foto: Alfredo Bosco
Un giorno, mentre cercavo testimonianze nei dintorni del capoluogo Ulan-Udė, mi sono imbattuto in un vecchio che raccoglieva patate. Gli ho chiesto cosa pensasse degli ucraini, e lui mi ha risposto la cosa più semplice del mondo: “Cosa devo pensare? Tutto ciò che so di loro è che sono contadini come noi e non mi hanno mai fatto nulla di male”. Quando al posto dei ritratti di Putin e Zelensky ci saranno i volti di due contadini con la barba ispida e le mani callose, forse allora la guerra finirà per davvero.
Ucraina; 2023. Ritratto di Yatagan, combattente russo, membro di Svoboda Rossii nell’area del Donbas. La legione fa parte dell’esercito ucraino ed è composta da disertori dell’esercito russo e altri volontari provenienti dall’ex blocco sovietico. Foto: Alfredo Bosco
Ucraina; 2023. Ritratto di Cesar, membro di Svoboda Rossii nell’area del Donbas. La legione fa parte dell’esercito ucraino ed è composta da disertori dell’esercito russo e altri volontari provenienti dall’ex blocco sovietico. Foto: Alfredo Bosco
In occasione della mostra Yan Pei-Ming. Pittore di storie abbiamo chiesto a Franco Zabagli, filologo ed esperto di Pier Paolo Pasolini, di approfondire il legame di Yan Pei-Ming con il poeta, scrittore e regista italiano. Franco Zabagli lavora presso il Gabinetto Vieusseux di Firenze, dove ha curato il fondo dei manoscritti di Pasolini conservati nella sezione dell’Archivio Contemporaneo ‘Alessandro Bonsanti’. Su Pasolini ha scritto numerosi saggi raccolti nel volume Filologia minima su Pasolini e altro (Ronzani Editore, 2022). Ha curato con Walter Siti i ‘Meridiani’ Per il cinema (Mondadori); la monografia Mamma Roma. Un film di Pier Paolo Pasolini (Cineteca di Bologna), e la riedizione anastatica di Poesie a Casarsa (Ronzani Editore). Ha curato le mostre, e i cataloghi, Pier Paolo Pasolini. Dipinti e disegni dall’Archivio Contemporaneo del Gabinetto Vieusseux (2000) e Pasolini. Dal Laboratorio (2010).
Nell’arte di Yan Pei-Ming la presenza di temi figurativi riguardanti Pier Paolo Pasolini è una traccia rivelatrice dei forti significati che emanano dai suoi dipinti maestosi, dove la materia della pittura torna a confrontarsi con le forme e i linguaggi della contemporaneità, dando del nostro tempo una rappresentazione dai sorprendenti risultati poetici.
Nella mostra in corso a Palazzo Strozzi il trittico che accoglie il visitatore nella prima sala è un autoritratto a figura intera, dove l’artista si rappresenta con l’abbandono e l’inerme nudità di un uomo crocifisso. Un’intima assunzione in se stesso del simbolo cristiano come archetipo universale del dolore umano, che verso la fine della mostra ritroviamo ancora in una solenne Crocifissione esemplata dai fotogrammi finali del Vangelo secondo Matteo: collocata, quest’ultima, fra due quadri “storici” che si fronteggiano: il ritrovamento del corpo massacrato di Pasolini all’Idroscalo di Ostia, e quello di Aldo Moro, abbandonato nel bagagliaio della Renault in via Caetani. Entrambi, replicando in grandi dimensioni lo scatto fotografico diffuso dalle agenzie di stampa, e rimasto indelebile nella memoria di tutti.
Aldo Moro e Pier Paolo Pasolini alla prima di Edipo re alla 28ª Mostra del Cinema di Venezia (settembre 1967). Foto Farabola / Bridgeman Images
L’acme tragica su cui Yan Pei-Ming concentra la scelta dei propri soggetti è desunta dalle foto dei giornali, da emblemi pop e immagini private come dai capolavori della storia dell’arte e dalla sublime iconografia religiosa, quella stessa su cui Pasolini, con la sua raffinata cultura figurativa, ricompone il particolare realismo del suo cinema, dove la passione di Cristo torna più volte a ripetersi nel destino di personaggi “umili”, come il ladrone affamato della Ricotta, o il figlio di Mamma Roma legato in carcere al letto di contenzione, e inquadrato dalla macchina da presa secondo il taglio prospettico di un “Cristo morto”. Proprio da quest’ultima immagine di Mamma Roma Yang Pei-Ming aveva ricavato un quadro esposto in una mostra romana a Villa Medici, per la quale l’artista aveva ridipinto a suo modo anche il più eminente fotogramma del Neorealismo italiano, quello di Anna Magnani crivellata dalle mitragliatrici tedesche in Roma città aperta.
La Storia che Yang Pei-Ming dipinge non è più quella interpretata dalle articolazioni di un pensiero o mossa dalle forze di un’ideologia, ma un mausoleo di tragedie diventate atemporali, di potenti della Terra fissati nel trono e nella polvere della loro parabola, dove insieme alla morte di Pasolini e di Moro si allineano i d’après della “Morte di Marat” di David, le fucilazioni del “3 maggio 1808” di Goya, il Mao dei ritratti ufficiali di Grande Timoniere, Putin e Zelensky incorniciati nella copertina di “Time”, Mussolini e la Petacci appesi a Piazzale Loreto, con una potenza di effetto che richiama l’immagine iniziale dei Pisan Cantos di Ezra Pound: “Thus Ben and la Clara a Milano / by the heels at Milano…” (“Così Ben e la Clara a Milano / per i calcagni a Milano…”).
In alcuni versi scritti all’inizio degli anni Sessanta, di fronte alla rapidissima mutazione che il Neocapitalismo planetario operava ormai ovunque e in ogni cosa, Pasolini riconosce una sorta di apocalisse ormai accaduta, e definisce il suo tempo una “Dopostoria”, o “nuova Preistoria”. Sempre in quegli anni, nel film La rabbia, una sorta di poema d’immagini fatto di spezzoni di cinegiornali, Pasolini allinea in una lunga sequenza le guerre del Novecento e le voraci espansioni della modernità, stragi e splendori mondani, nuove metropoli e Terzo mondo, megalomanie del denaro ed epifanie del Potere, Kruscev e Kennedy, Pio XII e Papa Giovanni, l’incoronazione di Elisabetta II e, struggente, Marylin Monroe, quasi un simbolo sacrificale del passaggio dal “mondo antico” al “mondo moderno”. Proprio a questa “fine della Storia”, così precocemente riconosciuta da Pasolini, Yan Pei-Ming sembra voler erigere una galleria di icone monumentali: un voto immenso e severo, da eseguire manualmente, con pazienza religiosa, e pennelli, spatole, parsimonia di colori.
In questi suoi quadri, ciò che accomuna la compresenza di temi storici e temi privati è una nobile meditatio mortis, dove sembrano compenetrarsi l’idea della vacuità buddhista e della cristiana vanitas, che, come tema iconografico, ricorre in mostra nel “Campo di crani rossi”, dove su una larga superficie orizzontale l’artista ha replicato ad acquerello la TAC del suo stesso cranio. Immaginare la propria morte anche in simili dettagli figurativi è del resto un esercizio spirituale comune alle due tradizioni. Pasolini, sempre esistenzialmente aperto ai misteri del sacro, ha immaginato più volte in forma poetica la propria morte (ricordo la poesia in friulano Il dì de la me muart, o il poemetto Una disperata vitalità); e Yan Pei-Ming, nella sala dove campeggia il complesso polittico dei “Funerali di Monna Lisa”, colloca un ritratto di se stesso giovane e defunto di fronte a un ritratto del padre anziano, creando un’enigmatica corrispondenza famigliare col volto della Gioconda, e soprattutto col paesaggio di sfondo, dilatato in due immensi pannelli laterali verso un orizzonte ultimativo di roccia e tenebre.
Ancora un’analogia: l’amore, la devozione di entrambi per la madre. Scrive Pasolini nella celebre Supplica a lei dedicata: “Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. / Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…”. Yan Pei-Ming dedica in questa mostra alla madre un’iconostasi di tre quadri: un gigantesco ritratto del suo volto minuto di vecchia dove quasi ci ipnotizza la mitezza, l’umiltà dello sguardo, un Buddha arancio dorato, memoria di quelli che l’artista disegnava da bambino per lei, e il Paradiso dove s’immagina che la madre ora sia: una rarefazione pressoché tutta bianca, un vuoto immacolato dove appena si arriva a distinguere – “in un futuro aprile…” – un ramo fiorito.
Yan Pei-Ming. Pittore di storie, Palazzo Strozzi, Firenze, 2023. Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio
Tra Oriente e Occidente, guidati dal Piccolo Drago
In occasione della mostra Yan Pei-Ming. Pittore di storie abbiamo chiesto a Xiuzhong “Gianni” Zhang, da anni amico di Yan Pei-Ming, di condividere un’intima riflessione sull’arte del maestro franco-cinese. I due sono accomunati da origini ed esperienze di vita simili, caratterizzate da una commistione profonda tra Oriente e Occidente. Xiuzhong Zhang si stabilisce a Firenze dopo la laurea in Scultura all’Accademia di Belle Arti e nel 2013 avvia un’attività come operatore culturale tra l’Italia e la Cina. Ha fondato la Zhong Art International, un’organizzazione che promuove e realizza progetti volti a favorire la conoscenza, il dialogo e gli scambi fra i due paesi nel campo artistico e ha istituito nel 2020 il Fán Huā Chinese Film Festival, di cui è Presidente.
Ho sentito parlare di Yan Pei-Ming per la prima volta nel 2012, quando ero studente all’Accademia di Belle Arti a Firenze e sono andato a Milano per vedere la sua mostra alla Galleria di Massimo De Carlo. Pochi anni dopo, nel 2016, in occasione della mostra di Liu Xiaodong a Palazzo Strozzi, ho avuto un primo contatto diretto con lui: è stato un incontro molto amichevole e dietro suo suggerimento sono andato a Roma per vedere una sua mostra. Durante la sua prima permanenza a Firenze ci siamo frequentati spesso, abbiamo molto parlato di arte e mi ha raccontato degli artisti cinesi che vivono a Parigi. Nel 2021 ci siamo rivisti per caso, ancora a Firenze: si vede che era destino o “yuánfèn”, come dice il buddhismo, ovvero una buona opportunità. Da allora ci scriviamo su WeChat e siamo diventati amici.
Xiuzhong Zhang e Yan Pei-Ming. Foto Chen Zhenhao
L’anno scorso, avendo saputo che avrebbe esposto a Palazzo Strozzi, gli ho mandato un messaggio di congratulazioni: con grande modestia, mi ha ringraziato e qualche mese dopo mi ha scritto che sarebbe venuto dalla Francia per l’organizzazione della mostra. Ci siamo quindi nuovamente incontrati con grande piacere a Firenze durante la chiusura del nostro Fánhuā Chinese Film Festival.
Mi considero fortunato per aver potuto conoscere di persona questo artista. Yan Pei-Ming è una persona speciale, attenta e riservata. Personalmente lo stimo molto, sia dal punto di vista umano che per la sua ricerca artistica. Abbiamo in comune le radici orientali e un’esperienza formativa importante in Occidente: io sono nato e cresciuto in Henan, poi all’età di 20 anni sono arrivato a Firenze, dove mi sono laureato all’Accademia di Belle Arti e ho approfondito la conoscenza e l’analisi dell’arte occidentale; Yan Pei-Ming, nato e cresciuto a Shanghai, è partito per Parigi a 20 anni con il sogno di studiare arte. All’inizio, per mancanza di risorse economiche ha fatto vari lavori e, proprio lavorando in un ristorante, ha conosciuto un artista giapponese che lo ha indirizzato all’Accademia di Digione. Durante la sua formazione è stato aiutato anche dall’amico Zhu Dequn, affermato pittore cinese attivo a Parigi. Anch’io, come Yan Pei-Ming, dopo gli studi sono entrato in contatto con importanti artisti cinesi, che mi hanno incoraggiato nella mia scelta di intraprendere l’attività di promotore e organizzatore culturale tra Cina e Italia. Formati in Oriente, ci siamo stabiliti tutti e due in Europa, immergendoci nell’arte e nel pensiero occidentale, e questo ha arricchito la nostra formazione artistica grazie all’apporto di due culture.
Yan Pei-Ming. Pittore di storie, Palazzo Strozzi, Firenze, 2023. Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio
Yan Pei-Ming è da sempre molto attento alle vicende storiche e all’attualità, ai personaggi del passato e del presente. Con la sua pittura restituisce con grande talento espressivo la sua visione, spesso dolorosa e drammatica: volti asiatici, totem spirituali cinesi, tradizioni culturali e simboli popolari rappresentati con colori puri, segni e tratti freschi e immediati. La sua è una fusione inedita di elementi diversi, che colpisce i nostri sensi e il nostro spirito.
L’attenzione ai personaggi storici e alla società contemporanea lo orienta su opere monocrome, con forti contrasti chiaroscurali e pennellate decise. I suoi ritratti sembrano travalicare i limiti del tempo e dello spazio geografico, creando un ponte tra Oriente e Occidente, tra passato e presente, forse per affermare che le vicende e i destini del genere umano sono strettamente legati.
Nell’era post-pandemica le comunità di tutto il mondo sembrano non essersi ancora riprese dall’isolamento sociale e dai traumi psicologici subiti. Le persone hanno messo da parte passioni e ideali di fronte alle priorità dettate dalle difficoltà economiche e la vera comunicazione fra le persone stenta a riprendere. I conflitti spesso nascono da differenze e incomprensioni, per scarsa conoscenza reciproca e assenza di dialogo, come se un fiume invalicabile creasse un ostacolo invalicabile. Personalmente credo che si debbano creare presto dei ponti per rimettere in comunicazione le nostre esistenze.
Yan Pei-Ming. Pittore di storie, Palazzo Strozzi, Firenze, 2023. Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio
L’attore Bruce Lee, il cui nome cinese Li Xiaolong significa “piccolo drago” è uno dei soggetti più trattati nei ritratti di Yan Pei-Ming. Le arti marziali e i relativi concetti filosofici espressi nei film hanno ampiamente contribuito ad aprire relazioni tra Oriente e Occidente, presentando dei prodotti cinematografici caratterizzati da elementi delle due culture. Questo personaggio rimane per il mondo occidentale un rappresentante “predefinito” della cultura asiatica ma per tutta la vita Bruce Lee ha sfidato il razzismo e gli stereotipi – attraverso la sua fisionomia orientale, l’aspetto atletico, il taglio dei capelli e un abbigliamento tipicamente americano – cambiando l’immagine convenzionale dei cinesi e dimostrando che possono essere combattivi, forti e sexy. Nel lavoro dell’artista, il ritratto di Bruce Lee sembra voler esprimere al di là degli stereotipi, un desiderio di riconciliazione.
L’Arte è il miglior ponte possibile, di cui gli artisti sono oggi gli architetti, grazie ai quali possiamo sperare di superare le barriere che ci dividono.
Yan Pei-Ming, Bruce Lee, 2007, Collezione privata. Yan Pei-Ming. Pittore di storie, Palazzo Strozzi, Firenze, 2023. Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio
Fino al 3 settembre 2023 a Palazzo Strozzi sarà possibile apprezzare il talento creativo, l’energia e lo stile personale di Yan Pei-Ming, che ci mostra la sua visione del mondo attraverso storie e personaggi, affrontando temi cruciali del passato e del presente, come il potere, l’ingiustizia, la morte, l’oblio, e stratificando con le sue visioni la nostra comune memoria sociale.
In copertina: Yan Pei-Ming, Bruce Lee, 2007. Collezione privata. Photography: Alessandro Zambianchi, Yan Pei-Ming, ADAGP, Paris, 2023.
Un attimo fugace, un momento inaspettato, un’esperienza unica e irripetibile. Occasioni più o meno quotidiane, capaci di segnare la nostra memoria. Sono situazioni, eventi, incontri che, impulsivamente, documentiamo per noi o per gli altri. Qui, a Palazzo Strozzi, siamo abituati a situazioni simili. Ogni giorno, centinaia di visitatori immortalano l’attimo, catturano un momento della visita in mostra. Fotografano un’opera, registrano un video di una sala, si fanno un selfie più o meno in posa. Esiste tuttavia un’opera esposta nella mostraReaching for the Stars che non è possibile fotografare e questa volta il diritto d’autore non c’entra.
Quest’opera è stata realizzata dall’artista anglo tedesco Tino Sehgal. Artista concettuale tra i più conosciuti e apprezzati al mondo, Sehgal utilizza il corpo, la voce e il movimento, suoi o di altri, per creare delle «situazioni costruite», come le definisce. Non ci sono oggetti, né didascalie che informino sulle opere, non c’è documentazione fotografica o video dei lavori. Tutto deve rimanere nel qui e ora, cristallizzato nell’attimo e fissato nella memoria del fruitore.
In This You (Proprio tu), opera del 2006 acquisita poi dalla Collezione Sandretto Re Rebaudengo, una «scultura vivente» femminile interpreta una canzone per i visitatori, basandosi su un vasto e personale repertorio. La scelta del brano da parte della cantante avviene in autonomia, facendosi ispirare dalla condizione psicologica, fisica o emotiva che percepisce nell’altro. Il risultato è un’esperienza inaspettata, effimera, intima e indimenticabile per entrambi i protagonisti dell’azione. Ogni visitatore riceve in dono una canzone scelta appositamente per lui. Non c’è un copione, non c’è una struttura standard: tutto ruota attorno all’incontro della cantante con il pubblico e in quel momento si crea la magia.
Ogni incontro è unico e irripetibile e le situazioni che si creano sono difficili da descrivere. In maniera del tutto eccezionale, le cantanti hanno condiviso alcuni dei momenti più belli da loro vissuti.
Canto Futura di Lucio Dalla a una coppia. Loro iniziano a guardarsi colpiti e straniti. Dopo un po’ sentono che cambio canzone. In un momento di pausa la ragazza si avvicina e mi chiede: «Ma non canti sempre la stessa canzone! Quindi hai scelto Futura per noi!» Rispondo di sì. La ragazza allora mi confessa che è una canzone per loro importantissima, collegata a molti momenti significativi della loro vita. Erano scioccati.
G. B.
Coppia sulla cinquantina, probabilmente americana. Canto Something dei Beatles, ascoltano interessati e lui si toglie il cappello. Fin qui tutto normale. Tornano dopo dieci minuti e lui mi confessa che sono venuti a vedere la mostra principalmente per This You e che hanno girato il mondo seguendo i lavori di Tino Sehgal. La signora poi mi dice che Something è stato il loro primo ballo da sposati.
V. T.
Signora di mezza età, sola. Canto una canzone. Lei si immobilizza e rimane lì distante, immobile, per tutto il tempo. Ascolta la canzone fino alla fine e non si muove nemmeno quando recito la didascalia. Io penso al peggio. Poi, piano piano, si avvicina e mi dice che questa è l’unica canzone d’amore che le cantava il suo uomo. Non si capacita dall’emozione. Non so se il suo uomo sia ancora di questo mondo, però lei mi ha detto: «Grazie».
E. N. B.
Canto Make You Feel My Love per un’intera giornata. Tanti momenti belli e intensi! Coppie di tutte le età, genitori con bambini, gruppi di amici: ognuno si emoziona con questa canzone. In particolare, una signora mi racconta che questa canzone gliela cantava sua mamma negli ultimi giorni di vita in ospedale e che nel risentirla gliel’ha fatta sentire di nuovo più vicina.
V. T.
Uomo solo, sulla settantina, con sciarpa da intellettuale e massa incolta di capelli ricci, perlopiù bianchi. Tu, tu che sei diverso Almeno tu nell’universo Tira dritto, senza guardarmi. Poi ci ripensa, torna indietro e alle spalle mi sussurra: «Lei sicuramente non ci crederà, ma io con Mia Martini c’ho lavorato quasi dieci anni». E scappa via.
E. M.
Mister X ha un’andatura felliniana, sognante, sospeso nel suo mondo. Inevitabile intonare Amarcord. Si desta dal suo sogno e si ferma a un palmo di naso da me. È stupito, divertito e molto commosso. Mi dice che ha acquistato tutti i film di Fellini in DVD per cominciare a rivederli nel weekend dopo vent’anni. Mi stringe la mano, dicendo che porterà con sé questo momento e rientra nel suo mondo fatato.
S. F.
È lunedì, giornata molto tranquilla. Passa una coppia di ragazzi giovani e canto una canzone che non canto mai alle coppie: Resistere di La Rappresentante di Lista. La ragazza si blocca e con faccia incredula sussurra «Ma io ce l’ho tatuata questa frase!» Abbassa la giacca, mi mostra il braccio con il verso che le ho appena cantato. Il verso diceva: la mia natura è resistere
I. C.
Signora di circa 70 anni. Da sola, sguardo basso. Le canto La ragazza di Ipanema. Lei si anima e si mette a ballare. Scoppia a piangere. Mi chiede come facevo a sapere che era originaria del Brasile e mi racconta che era stata adottata da una famiglia italiana da piccola.
E. M.
Anche i partecipanti al progettoCorpo Libero, il progetto di Palazzo Strozzi che unisce le opere d’arte e la danza dedicato all’inclusione delle persone con Parkinson, hanno lasciato il loro contributo dopo aver vissuto l’opera di Tino Sehgal durante la loro attività.
Un passaggio enorme Un obiettivo da raggiungere Ero guidato da questa voce Camminavo come se avessi avuto gli occhi aperti Ho camminato sulle nuvole, come camminare sul vuoto! Se penso alla sensazione che ho avuto mi riaffiora una certa emozione E chi se lo aspettava! Possibile? Vediamo dove ci porta l’ignoto Tutta la tensione del corpo si è sciolta Ho percepito come un abbraccio Ho aperto gli occhi ma la magia non è svanita, la connessione è rimasta Cambiare canale percettivo Come affacciarsi sul Grand Canyon Lasciare andare E se domani… io potessi…
This You di Tino Sehgal (2006) nella mostra Reaching for the Stars è interpretata da: Giorgia Bardelli, Elena Nenè Barini, Nicoletta Cabassi, Ilaria Corsi, Giulia Ferrario, Stefania Forese, Claudia Fossi, Susannah Iheme, Elisa Malatesti, Daniela Pagani, Carolina Sopò Santini, Vittoria Tuci. Per la realizzazione e il coordinamento dell’opera si ringrazia Cora Gianolla.
Olafur Eliasson: Nel tuo tempo, la più grande mostra mai realizzata in Italia dedicata a uno degli artisti contemporanei più originali e visionari della nostra epoca, è stata molto più di un’esposizione. Con la sua straordinaria creatività Olafur Eliasson ha trasformato Palazzo Strozzi in un luogo di partecipazione e condivisione con opere talvolta quasi impercettibili a volte di forte impatto. Oltrepassando i confini e i limiti fisici di uno spazio, ha messo in discussione la nostra distinzione tra realtà, percezione e rappresentazione.
Nel tuo tempo ha raggiunto il risultato di 163.000 visitatori, ponendosi come una delle mostre di maggior successo in Italia nel 2023 e contribuendo, con le esposizioni Donatello, il Rinascimento e Let’s Get Digital!, al risultato di oltre 340mila partecipanti alle mostre di Palazzo Strozzi nell’arco degli ultimi 12 mesi.
Come dichiara Olafur Eliasson: «ognuno di noi in quanto visitatore ha viaggiato e ci incontriamo nel qui e ora di questa mostra». Gli oltre 160.000 visitatori hanno lasciato un segno attraverso i nostri sondaggi e possiamo così capire quali sono stati i pubblici dell’esposizione.
Dalle analisi sui visitatori emerge un forte ritorno del pubblico turista (italiano e straniero, che soggiorna in città almeno una notte) che ha rappresentato il 38% del totale visitatori e del pubblico escursionista (proveniente da aree al di fuori di Firenze e provincia che visita la città in giornata) pari a circa 65.000 visitatori. Tra questi circa il 50% dichiara di essere venuto a Firenze appositamente per visitare la mostra a Palazzo Strozzi, generando un importante ricaduta sull’economia locale. Rilevante anche la partecipazione del pubblico locale, residente nell’area metropolitana di Firenze, che rappresenta il 22% del totale visitatori, pari a oltre 35.000 persone.
Grande la partecipazione del pubblico under 30, che rappresenta il 35% del totale dei visitatori. Circa il 40% di loro dichiara di aver visitato Palazzo Strozzi per la prima volta in occasione della mostra e il 20% ha conosciuto l’artista proprio grazie all’esposizione manifestando un altissimo gradimento nei confronti dell’esperienza di visita (98% gradimento positivo). Straordinaria anche la presenza pubblico delle famiglie, come testimonia la vendita record di oltre 5.000 biglietti famiglia, pari a oltre 14.000 presenze totali, la grande partecipazione ai laboratori e il successo del Kit Famiglie, speciale materiale sviluppato per visitare la mostra con giochi e attività utilizzato da 3.500 famiglie.
Anche per questa mostra abbiamo rinnovato l’impegno per rendere le nostre esposizioni accessibili grazie a eventi, attività e progetti per tutti i pubblici, svolte a partire dal Maria Manetti Shrem Educational Center. Da segnalare in particolare A più voci per persone con Alzheimer, Sfumature per giovani e adulti autistici, Connessioni per disabilità intellettive e disagio psichico, e Corpo libero, un percorso di danza dedicato all’inclusione delle persone con Parkinson. Queste attività dedicate all’accessibilità hanno coinvolto oltre 600 partecipanti.
#NelTuoTempo sui social: un racconto corale della mostra
La mostra Nel tuo tempo ha mantenuto una costante attenzione in termini di visibilità sui maggiori social network, con quasi 10 milioni di visualizzazioni dei contenuti e dei profili social della Fondazione (Facebook, Instagram, TikTok, Twitter e LinkedIn) generando quasi 130.000 interazioni tra like, commenti e condivisioni su tutte le piattaforme. Su Instagram si registrano i risultati più sorprendenti con oltre 1.2 milioni di persone coinvolte. Si segnala, infine, che proprio durante il periodo di apertura della mostra, la community social di Palazzo Strozzi ha raggiunto il numero di 230mila follower, con 100mila follower sia su Facebook che su Instagram.
Le installazioni di Olafur Eliasson hanno affascinato e ammaliato i visitatori, i quali hanno condiviso il loro punto di vista sui propri profili social. Oltre 100mila foto e video sono state pubblicate online con gli hashtag #NelTuoTempo e #PalazzoStrozzi e poi raccolte dal Social Wall della mostra presente nel cortile e sul sito di Palazzo Strozzi, andando così a costruire un racconto corale della mostra attraverso i canali digitali.
Il Social Wall di Olafur Eliasson: Nel tuo tempo
Durante il periodo della mostra il sito www.palazzostrozzi.org è stato visitato da oltre 400mila utenti per un totale di quasi 2 milioni di pagine visualizzate, un dato record rispetto alle mostre passate, che conferma l’impatto mediatico e popolare dell’artista e della mostra.
Un incontro tra opere d’arte, visitatori e Palazzo Strozzi
Olafur Eliasson: Nel tuo tempo è stato un viaggio coinvolgente tra le nuove installazioni realizzate appositamente per Palazzo Strozzi e le opere storiche di Olafur Eliasson. Grazie all’uso del colore, dell’acqua e della luce, l’artista ha creato un’interazione con nostri sensi e lo spazio rinascimentale. Il contesto architettonico, storico e simbolico del palazzo viene così ripensato esaltando il ruolo del pubblico come parte integrante delle opere. Come ha affermato lo stesso artista:
Nel tuo tempo è stato un incontro tra opere d’arte, visitatori e Palazzo Strozzi. Palazzo Strozzi è uno straordinario edificio rinascimentale che ha viaggiato attraverso i secoli per accoglierci, qui e ora, nel XXI secolo, non come semplice contenitore ma come co-produttore della mostra. Non è solo Palazzo Strozzi ad aver viaggiato nel tempo. Come visitatore, ognuno di noi ha vissuto, con una relazione tra corpo e mente sempre diversa in modo individuale. Ognuno con le proprie esperienze e storie ci siamo incontrati nel qui e ora di questa mostra.