“Da Kandinsky a Pollock. La grande arte dei Guggenheim”: il percorso espositivo

La mostra a Palazzo Strozzi Da Kandinsky a Pollock. La grande arte dei Guggenheim (fino al 24 luglio 2016) mette in scena un inedito confronto tra le collezioni di Solomon e Peggy Guggenheim, zio e nipote, confermandoli quali figure fondamentali della storia dell’arte del XX secolo, in un percorso che si snoda tra i maggiori rappresentanti della cultura del Novecento. Un’occasione unica per ammirare e confrontare capolavori di movimenti che hanno definito il concetto di arte moderna, presentando insieme le vicende della vita di Peggy e di Solomon e dei musei Guggenheim da loro fondati. 

Oggi, vi conduciamo alla scoperta del percorso espositivo che ricostruisce rapporti e relazioni tra le due sponde dell’Oceano, nel segno delle figure dei collezionisti americani Peggy e Solomon Guggenheim.

 

I Guggenheim e le loro Collezioni

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I due grandi collezionisti Guggenheim sono presentati in questa sala attraverso i loro spazi newyorkesi. A sinistra troviamo una foto dell’interno di Art of This Century, il museo-galleria inaugurato da Peggy nel 1942. Questo spazio innovativo, progettato dall’architetto Frederick Kiesler, divenne fulcro degli scambi tra artisti europei emigrati e la nuova avanguardia americana. A destra abbiamo una foto del Museo Solomon R. Guggenheim, opera di Frank Lloyd Wright, aperto al pubblico nel 1959 e destinato a diventare un’icona cittadina e internazionale. Le opere qui esposte rappresentano le origini delle due collezioni: astratta, priva di riferimenti figurativi quella di Solomon, creata a partire dal 1929 insieme all’artista e consigliera Hilla Rebay; straordinaria collezione delle varie correnti d’avanguardia quella di Peggy, raccolta a partire dagli anni ’30 ed emblematica della sua «imparzialità fra surrealisti e astrattisti».

 

Europa-America. Il Surrealismo e la nascita delle nuove avanguardie

 width=Allo scoppio della Seconda guerra mondiale molti surrealisti europei emigrarono negli Stati Uniti dove, grazie anche a Peggy Guggenheim, influenzarono i giovani artisti che dettero vita alle avanguardie americane del secondo dopoguerra. Le opere di questa sezione illustrano la passione di Peggy per il Surrealismo e per il lavoro del grande amico e consigliere Marcel Duchamp. Tra i surrealisti esistono affinità ma non uno stile univoco: Peggy li amò e collezionò nelle loro diverse espressioni. Le opere di Gorky, Baziotes, Gottlieb e Still (alcuni dei quali ebbero le loro personali presso la galleria newyorkese di Peggy) mostrano la contaminazione delle esperienze dell’avanguardia tra i due continenti che porterà all’Espressionismo astratto, fenomeno di punta nel clima di affermazione della pittura non figurativa americana tra la fine degli anni ’40 e gli anni ’50.

 

Jackson Pollock

 width=Jackson Pollock, il rappresentante più emblematico dell’Action Painting, grazie soprattutto al sostegno di Peggy Guggenheim, diviene in pochi anni uno dei maggiori artisti americani, quasi un mito, come sancì un articolo su “Life” del 1949.
Pollock, che aveva lavorato come factotum nel museo di Solomon, ottenne nel 1943 da Peggy un contratto che gli permise di dedicarsi pienamente alla carriera artistica. La straordinaria raccolta di opere qui esposte ricostruisce il percorso cronologico dal 1942 al 1951, dagli esordi in cui si avverte l’influenza di Picasso e del Surrealismo (La donna luna, 1942, e Due, 1943-1945), alle opere realizzate con la tecnica del dripping, che consiste nel far gocciolare il colore su una tela posta in orizzontale. In questa fase matura Pollock si ispirò anche a gesti rituali e coreografici memori dei riti magico-propiziatori praticati dai Nativi americani (Foresta incantata, 1947, Senza titolo [Argento verde], 1949 circa, Numero 18, 1950).
Questi lavori si presentano come un intreccio vitale di linee e macchie colorate che supera i confini della tela e con un’apparente assenza di organizzazione razionale. La sua opera rivoluzionerà l’arte del secondo dopoguerra, diffondendosi celermente anche grazie a Peggy, che continuò a promuoverlo con mostre in Europa (1948 e 1950) e donazioni a musei internazionali, alcune eccezionalmente qui riunite.

 

L’Espressionismo astratto

 width=Willem de Kooning è una delle figure più rappresentative dell’Espressionismo astratto. Di origini olandesi, personalità inquieta e ribelle, precorse i principali linguaggi della pittura moderna scoprendo la forza del segno e creò composizioni che si configurano quali somma di colore, materia e gesto. Il movimento si coagulò attorno alla protesta di diciotto artisti che – esclusi da una mostra sulla pittura contemporanea americana del Metropolitan Museum of Art – farà guadagnare al gruppo l’appellativo di “Irascibili”. Accanto alle loro opere sono esposte quelle della cosiddetta “Astrazione postpittorica” di Sam Francis, quelle di Joan Mitchell e di Hans Hofmann, che sviluppò un’autonoma tendenza astratta e che influenzerà le future generazioni grazie alla sua dedizione per l’insegnamento.

 

L’Europa del dopoguerra

 width=Se nel corso degli anni ’40 negli Stati Uniti si procede verso la maturazione di un nuova tendenza astratta, in Europa due grandi maestri sperimentano e precorrono le nuove forme di astrazione: l’italiano Lucio Fontana già negli anni ’30, e il francese Jean Dubuffet negli anni ’40. Nell’immediato dopoguerra l’Europa è un laboratorio ricchissimo: emblematico di questa vitalità è il movimento denominato Informel o Art autre, dove la materia acquista un nuovo significato, come avviene con le plastiche di Burri, i buchi di Fontana, la gestualità di autori stimati da Peggy dopo il suo arrivo a Venezia, come Vedova, Consagra, Mirko, e la ricerca di Dubuffet. Le opere di quest’ultimo qui esposte provengono dalla collezione dei coniugi Scuhlhof, che nel 2012 donarono una parte importante della propria collezione alla Fondazione Solomon R. Guggenheim.

 

Palazzo Venier dei Leoni: Peggy e Venezia

 width=Le immagini di una delle case newyorkesi di Peggy Guggenheim e della sua residenza veneziana testimoniano quanto Peggy amasse circondarsi di opere e oggetti degli artisti che collezionava o di cui era amica: le scatole di Cornell, le bottiglie del primo marito Vail (che insieme alla valigia di Duchamp inaugurarono la stagione espositiva della sua galleria Art of This Century), i rayogrammi di Man Ray, la tela di Bacon che scelse per la camera da letto a Venezia e le opere di Tancredi. Quest’ultimo in particolare venne molto sostenuto da Peggy, testimoniando come la sua attività di mecenate e di collezionista proseguì anche una volta arrivata a Venezia.

 

La grande pittura americana

 width=Alla rivoluzionaria stagione dell’Espressionismo astratto (a cui appartengono gli esordi di Motherwell) segue una seconda generazione che matura una successiva fase artistica non più fondata sull’enfasi esistenzialista del gesto ma sull’interrogare la pittura come farsi, con il conseguente raffreddamento della gestualità e matericità dell’opera. Questa fase è caratterizzata da due direzioni, note come Color Field e Post-Painterly Abstraction. Emblematici di queste modalità sono il colore piatto e bidimensionale, fatto anche colare, come in Morris Luis, sulla tela, e il raffreddamento geometrico di Frank Stella e Kenneth Noland. Completa la ricchezza di questo panorama maturo dell’arte americana a cavallo tra anni ’50 e ’60 la costellazione dei mobile di Alexander Calder, uno dei più grandi maestri dell’astrazione che ha modificato l’idea di scultura, organizzando forze contrastanti che mutano le loro relazioni nello spazio e la forma dell’opera stessa. Calder, artista stimato e collezionato da Peggy Guggenheim, venne celebrato con un’importante retrospettiva nei primi anni ’60 al Museo Solomon R. Guggenheim.

 

Marc Rothko

 width=Peggy Guggenheim riconobbe da subito le potenzialità di Rothko, tanto da dedicargli una mostra nella sua galleria Art of This Century già nel 1945. Numerose sono le sue opere conservate al Museo Solomon R. Guggenheim, segno evidente di una attenzione all’artista anche da parte dello zio. Rothko sviluppò già agli inizi degli anni ’50 un linguaggio astratto del tutto personale. Il fascino della sua pittura consiste proprio nel misterioso processo che gli permise di semplificare la complessa visione che i suoi quadri esprimono. Il tempo si annulla nei suoi quadri e il loro lento procedere verso l’animo dello spettatore è un’infinita testimonianza della tragedia di nascere, vivere e morire. Questa forza emotiva, intensissima, che lo spettatore prova di fronte all’opera, crea una particolare esperienza contemplativa, portando a un modo soggettivo di vivere il rapporto con l’opera. Come si può osservare, la ricerca di Rothko arrivò fino alla monocromia assoluta dei neri e dei grigi, legata fatalmente alla fine della sua ricerca.

 

Gli anni sessanta. L’inizio di una nuova era

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Uno dei grandi capolavori di Dubuffet, L’istante propizio qui esposto, apre gli anni ’60. Tra le varie retrospettive che il Museo Solomon R. Guggenheim riserva a Dubuffet, quella del 1966 fu dedicata all’Hourloupe, neologismo con cui l’artista battezza le opere a base di dense linee nere e macchie di colore che influenzeranno la Street Art. L’arte europea e americana in quegli anni procedeva in una sintesi minimale e astratta rappresentata da Twombly (che usa la tecnica calligrafica dei graffiti su sfondi solidi di colore grigio, marrone o bianco, a metà tra pittura e incisione), dai tagli puri di Fontana, dall’eleganza formale ed esatta di Kelly. Questo percorso che procede dalle radici delle avanguardie di inizio secolo, negli anni ’60 viene interrotto dall’esplosione di una nuova corrente artistica, la Pop Art: del fatidico 1968 è l’opera di Lichtenstein, Preparativi, che apre la nuova era dell’arte contemporanea. E da allora nulla sarà più lo stesso.

Fuori mostra: un viaggio in Toscana

Ideale per chi vuole vivere la città senza rinunciare alla cultura, per chi è alla ricerca di mete alternative per il weekend,  per chi in settimana non sa cosa fare a Firenze e dintorni, per chi vuole rivivere in “pilllole” il soggiorno fiorentino di Peggy Guggenheim nel 1949, o semplicemente per chi vuole approfondire alcune tematiche della mostra Da Kandinsky a Pollock. La grande arte dei Guggenheim andando oltre i confini di Palazzo Strozzi.

Abbiamo preparato per voi uno speciale fuori mostra che vi condurrà alla scoperta dei luoghi dove trascorre il vostro tempo libero tra arte e natura. Una guida ed una mappa vi condurranno in un viaggio alternativo e non scontato del territorio toscano. Di seguito trovate 5 fra questi luoghi imperdibili, ma potrete scoprirne tanti altri nella nostra guida sempre scaricabile e gratuita sul sito di Palazzo Strozzi.

Il Giardino dei Tarocchi, Capalbio (Grosseto)
Il Giardino dei Tarocchi è un parco artistico ideato dall’artista franco-statunitense Niki de Saint Phalle (Neuilly-sur-Seine 1930-La Jolla, San Diego 2002), popolato di statue ispirate alle figure degli arcani maggiori dei Tarocchi. Stimolata dal Parque Guell di Antoni Gaudí a Barcellona e da quello cinquecentesco di Bomarzo, l’artista ne ha iniziato la costruzione nel 1979. Identificando nel Giardino il sogno magico e spirituale della sua vita, Niki de Saint Phalle si è dedicata alla costruzione delle ventidue imponenti figure in acciaio e cemento ricoperte di vetri, specchi e ceramiche colorate, per più di diciassette anni, affiancata, oltre che da diversi operai specializzati, da un’équipe di nomi famosi e soprattutto del marito Jean Tinguely.

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Il Mercato Centrale di Firenze
Il Mercato Centrale accoglie l’installazione Il Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto, a cura di Nicolas Ballario e Domenico Montano. Insieme a Juan E. Sandoval, Pistoletto ha creato un’installazione che nasce da un progetto del 2003, anno in cui scrive il manifesto del Terzo Paradiso e ne disegna il simbolo: una riconfigurazione del segno matematico d’infinito. Tra i due cerchi opposti, simbolo di natura e artificio, viene inserito un cerchio centrale, a rappresentare il grembo generativo di una nuova umanità, ideale superamento del conflitto in cui natura e artificio si ritrovano nella società. Questa è la vera vocazione del Mercato Centrale, quella di essere un punto di incontro di un nuovo Umanesimo, dove il rispetto per ciò che siamo e la curiosità dell’avanguardia possano incontrarsi. L’officiante di questo incontro è la luce, e le luci naturali e quelle artificiali mostrano l’installazione sempre in modo diverso. Rigenerato.

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Antinori Art Project, Antinori nel Chianti classico, Bargino (Firenze)
 width=La Cantina Antinori nel Chianti Classico è il simbolo del legame tra i Marchesi Antinori e le arti: sin dal 1385 la famiglia ha unito il proprio nome all’eccellenza nell’arte del vino e alla tradizione mecenatistica. Così nel 2012, con l’inaugurazione della nuova cantina progettata dall’architetto Marco Casamonti, vi è stata trasferita parte della collezione di famiglia. Per dare sistematicità e impulso ai progetti dedicati alle arti visive del nostro tempo è stato avviato Antinori Art Project, dall’idea di creare una naturale prosecuzione dell’attività di collezionismo. Si tratta infatti di un programma di commissioni site specific rivolto a giovani, ma già affermati, protagonisti della scena artistica, nonché esposizioni temporanee e seminari. Gli interventi nel biennio 2012/2013, a cura di Chiara Parisi, hanno coinvolto Yona Friedman, Rosa Barba e Jean-Baptiste Decavèle e dal 2014, con l’arrivo di Ilaria Bonacossa alla direzione artistica del progetto, hanno lasciato la loro “traccia” Tomàs Saraceno, Giorgio Andreotta Calò e Nicolas Party.

 

 

 

 

 

 

 

 

Castello di Ama per l’Arte Contemporanea, Gaiole in Chianti (Siena)
 width=Il complesso è composto da più edifici sorti in epoche diverse. Nel 1999 la passione di Lorenza Sebasti e Marco Pallanti ha portato all’inaugurazione del progetto “Castello di Ama per l’Arte Contemporanea”, con l’appoggio della Galleria Continua di San Gimignano. Le cappelle delle ville ospitano installazioni di grandi artisti: Aima di Anish Kapoor la cappella di Villa Pianigiani, Confession of Zero di Hiroshi Sugimoto quella di Villa Ricucci. Sono presenti anche Topiary di Louise Bourgeois in una cisterna in pietra nella cantina di invecchiamento di villa Pianigiani, mentre Michelangelo Pistoletto è stato l’iniziatore del progetto con L’albero di Ama: moltiplicazione e divisione dello specchio. Kendell Geers è presente con Revolution/love collocata nella cantina di invecchiamento, Giulio Paolini con Paradigma, Chen Zhen è rappresentato dall’opera postuma La Lumière intérieur du corps humain, l’artista cubano Carlos Garaicoa da Yo no quiero ver mas a mis vecinos. Daniel Buren è presente con Sulle Vigne: punti di vista, divenuta l’immagine simbolo del castello di Ama; Nedko Solakov ha rivisitato due stanze della villa Ricucci con i suoi Amadoodles; l’installazione Towards the ground di Cristina Iglesias è immersa nella natura; Ilya & Emilia sono presenti con The Observer e Pascale Marthine Tayou ha portato i colori del Camerun con Le Chemin du bonheur.

Il Giardino di Daniel Spoerri, Seggiano (Grosseto)
All’inzio degli anni Novanta, l’artista Daniel Spoerri – nato in Romania nel 1930 e presto trasferito in Svizzera, paese della madre di cui ha assunto il cognome – ha cominciato a installare un parco di sculture sulle pendici del Monte Amiata, su un terreno di sedici ettari. Aperto al pubblico nel 1997, attualmente il Giardino accoglie centotré opere di cinquanta artisti diversi: Spoerri, si è infatti avvalso della collaborazione di importanti artisti come Eva Aeppli, Arman, Erik Dietman e Jean Tiguely. Accanto alle sculture in bronzo di Spoerri – come la Chambre Nr 13 – divani d’erba, un olivo dorato, giganteschi suonatori di tamburi seguiti da centosessanta oche e altre figure come draghi sputafuoco, nani e guerrieri, in un allestimento fra sogno e realtà. Le sculture sono integrate nel paesaggio caratterizzato da olivi, castagni e macchia mediterranea, e affiancate da un percorso botanico che segnala le piante.

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Se non si sperimenta, che laboratorio è?

In occasione della mostra Da Kandinsky a Pollock. La grande arte dei Guggenheim il Dipartimento Educazione si è lasciato inspirare dai grandi dipinti astratti presenti in mostra, dalle tecniche dei pittori surrealisti e degli espressionisti astratti. Da queste suggestioni iniziali sono nate svariate attività educative proposte ai gruppi in visita alla mostra. Figure in fuga e Arte in scatola sono i due laboratori progettati rispettivamente per le classi di scuola primaria e secondaria di primo grado. Si tratta di due attività che condividono molti aspetti, a partire dal focus sulla pittura astratta e all’attenzione per il processo artistico contraddistinto da un atteggiamento di ricerca libera che si ritrova nelle opere di molti dei pittori protagonisti della mostra come Max Ernst, Jackson Pollock e Morris Louis.

Figure in fuga (classi con bambini dai 6 agli 11 anni) è nato da una riflessione sui modi in cui l’arte astratta libera il pittore dalla necessità di imitare il mondo trasformando la tela del dipinto in uno spazio di sperimentazione di pratiche che producono risultati imprevedibili. Per restituire in laboratorio questo atteggiamento e valorizzare la dimensione di scoperta che caratterizza l’opera di questi artisti sono stati utilizzati pochi materiali e il laboratorio può essere utilizzato come spunto da riproporre a casa o in classe. Per prima cosa i bambini suddivisi in gruppi hanno posizionato dei fogli di carta velina colorata sopra dei grandi fogli di carta da pacchi bianca. Utilizzando della semplice acqua i bambini hanno a turno iniziato a bagnare la carta colorata, in certi casi simulando con i pennelli il dripping di Pollock, o usando strumenti meno convenzionali come i contagocce, le spugne o i diffusori spray. L’acqua ha sciolto il pigmento colorato della velina che immancabilmente ha macchiato la carta da pacchi bianca sottostante in corrispondenza delle parti bagnate. Il risultato inaspettato spesso prendeva la forma di grandi macchie di colore che mutavano in affascinanti sfumature date dalla sovrapposizione di più carte colorate e che i bambini via via imparavano a gestire secondo le proprie intenzioni. Alla scoperta, dunque, è seguito il tentativo di controllo dei risultati da parte dei partecipanti.

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Questa attività, così come Arte in scatola, la variante progettata per le scuole medie in cui i ragazzi e le ragazze potevano utilizzare liberamente un set di strumenti prestabiliti per realizzare una propria opera astratta, ha messo in discussione il ruolo dell’educatore chiamato a condurre le attività. Proprio perché si tratta di due attività elementari dove il superamento delle regole precostituite e la gioia della scoperta autonoma sono da considerarsi come gli obbiettivi educativi più importanti, l’educatore deve riuscire a fare il necessario passo indietro lasciando che siano le suggestioni ottenute dalla visita della mostra a indicare le soluzioni espressive e a farne emergere di nuove.

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Proposte di laboratorio come queste rappresentano un esempio di come la semplificazione dei passaggi possa garantire lo spazio di libertà necessario al partecipante per esprimere la propria individualità e allo stesso tempo facciano emergere quei limiti (i pochi materiali a disposizione, il rispetto dell’ambiente di lavoro, il tempo prestabilito) che i bambini o i ragazzi possono esplorare con l’obbiettivo di forzarne le logiche attraverso ulteriori soluzioni creative.

Collezionismi

Due collezioni a confronto, quella di Solomon e di Peggy Guggenheim, hanno definito nel tempo il concetto di arte moderna, dal Surrealismo all’Action Painting fino all’Informale e alla Pop art.

Da questo confronto nasce la mostra Da Kandinsky a Pollock. La grande arte dei Guggenheim da cui prende spunto il progetto educativo Collezionismi.

Collezionismi nasce dall’idea di utilizzare la mostra come terreno di confronto finalizzato alla produzione di nuove opere d’arte e nuovi progetti artistici. Collezionismo a 360 gradi dunque: come pratica artistica, come approccio operativo, come metodo di lavoro. Organizzare una raccolta di oggetti o immagini, secondo un’idea, una riflessione, un racconto, come stimolo per nuovi scenari o la definizione di inedite suggestioni visive.

Il progetto ha coinvolto gli studenti delle Accademie d’arte di Firenze che, dopo una visita alla mostra e l’incontro con due artisti, Chiara Betazzi e Francesco Carone -la cui ricerca artistica ha un forte legame con l’idea di collezione- hanno esplorato possibili forme di collezionismo attraverso la fotografia, la performance e la pittura.

 width=Ogni studente ha attinto dal proprio percorso di formazione e dalle proprie esperienze, traducendo l’atto del collezionare non solo in una raccolta di oggetti, ma in una serie più complessa di attività, scendendo più in profondità nel processo creativo.

In un incontro pubblico a Palazzo Strozzi, i partecipanti al progetto hanno presentato in anteprima le produzioni più significative: c’è chi ha catturato il proprio tempo attraverso una video performance, chi ha costruito scatole cinesi concettuali attraverso collezioni di fotografie il cui soggetto sono collezioni di sculture, chi ha utilizzato gli oggetti dimenticati della propria infanzia come incipit di un progetto video in stop-motion.

 width=Tante le possibili forme di “collezionismo” realizzate dai ragazzi che, grazie alla collaborazione con gli studenti del corso di Art Management dello IED Firenze, sono divenute una mostra di arte contemporanea dal titolo #tantecose.

Il progetto espositivo #tantecose si terrà negli spazi di IED (in via Bufalini 6R) e ONART Gallery, (in via della Pergola 57-61/r) dal 23 al 30 giugno 2016 presentando non solo il concetto del collezionismo di opere d’arte ispirate alle collezioni dei Guggenheim, esposte a Palazzo Strozzi, ma considerando anche i vari approcci psicologici del collezionismo come azione di raccolta di oggetti, pensieri e esperienze.

L’atto di collezionare include una selezione: una scelta specifica degli elementi selezionati. #tantecose invita lo spettatore ad esplorare la natura di queste scelte.

 width=Collezionismi è realizzato grazie alla collaborazione di:
Accademia di Belle Arti di Firenze (Marco Raffaele)
LABA Firenze (Federica Chezzi, Massimo Innocenti)
IED (Daria Filardo)
Fondazione Studio Marangoni, (Lucia Minunno, Margherita Verdi)
Chiara Bettazzi e Francesco Carone

Dove vivo io

«Abitare è essere ovunque a casa propria». Inizia così il documentario del 1977 dell’architetto Ugo La Pietra. A questo pensiero e alla migrazione contemporanea rappresentata nella mostra Liu Xiaodong: Migrazioni si ispira il progetto Dove vivo io, realizzato dal Dipartimento Educazione della Fondazione Palazzo Strozzi.

L’idea è di raccontare la comunità che vive nei luoghi raffigurati dal pittore Liu Xiaodong, attraverso una testimonianza diretta, fatta di voci, suoni e immagini. Un progetto pensato per far emergere i legami con il territorio e i percorsi emotivi di chi abita quotidianamente la città.

Come ci rappresentano e cosa raccontano di noi i luoghi in cui viviamo? Quanto siamo influenzati dai quartieri, dalle vie e dalle piazze che frequentiamo? Quanto la nostra presenza modifica questi luoghi?

A queste domande risponde un gruppo di ragazze e ragazzi, che vivono tra Prato e Firenze, riflettendo sui luoghi del proprio vissuto quotidiano: una strada, una piazza o qualsiasi altro posto legato ad un ricordo, a un’emozione, alla personale percezione della città.

Il punto di partenza è stato quello di individuare sulla mappa di Prato, i “luoghi del cuore”; è seguita una visita in città per scoprire insieme le aree indicate: un percorso durante il quale ognuno ha raccontato le storie, le trasformazioni, le relazioni, con una particolare attenzione al quartiere di Chinatown. La fase successiva è stata quella di intervistare persone che vivono nel territorio, scelte direttamente dai partecipanti.

 width=Ad ogni luogo corrisponde una storia: c’è chi ha indicato Piazza dell’Immaginario, chi via Pistoiese, chi piazza Duomo, raccontando così frammenti della città. Vincenzo, spazzino italiano, si prende cura della strade del Macrolotto Zero; Giulia, ex studentessa di medicina, vive in Italia da venticinque anni lavorando come sarta, innamorata del centro storico pratese; Massimiliano, ha un cognome e un passaporto cinese, senza però conoscere la lingua. Tante le storie che si intrecciano, raccolte in un progetto sonoro, con sottotitoli in italiano e cinese, affiancato da una selezione di fotografie e mappe dei luoghi raccontati.

Il video, le fotografie e le mappe che potete vedere per intero qui, sono il risultato di alcuni mesi di lavoro che hanno permesso di scoprire, approfondire e raccontare l’articolata convivenza multiculturale che caratterizza Prato.

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Tutte le interviste e le fotografie sono disponibili sul nostro account Youtube e Flickr.

 width=Il progetto è stato reso possibile grazie alla collaborazione con Sara Jacopini, Miao Miao Huang e all’attenzione e sensibilità di tutti i partecipanti.
Il progetto audio è stato realizzato in collaborazione con Radio Papesse.
La documentazione fotografica e il montaggio video è di Giancarlo Barzagli.
Le mappe sono state realizzate da Emanuele Barili.

 

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Il ponte del 2 giugno a Palazzo Strozzi

Sapete già come trascorrere questo lungo weekend di festa?

Da oggi inizia il lungo ponte del 2 giugno da dedicare alle nostre passioni, al tempo libero ritrovato, alle gite in giro per l’Italia e ai nostri immancabili appuntamenti con l’arte. Non c’è occasione migliore per visitare Firenze e Palazzo Strozzi!

Proprio a Palazzo Strozzi, all’interno della cornice di uno dei capolavori dell’architettura rinascimentale fiorentina, vi aspettano due grandi mostre di arte moderna e contemporanea: Da Kandinsky a Pollock. La grande arte dei Guggenheim e Liu Xiaodong: Migrazioni.

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Entrambe rimarranno aperte al pubblico giovedì 2 giugno sino alle ore 23.00 (con ultimo ingresso alle ore 22.00), mentre venerdì, sabato e domenica vi faranno compagnia fino alle ore 20.00 (ultimo ingresso alle ore 19.00).

Se desiderate unire la vostra passione per il moderno al contemporaneo, vi suggeriamo di acquistare il biglietto congiunto che vi permetterà di vedere sia i capolavori delle collezioni Guggenheim, sia le opere frutto della riflessione sulle migrazioni contemporanee dell’artista cinese Liu Xiaodong.

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Lasciatevi guidare in una visita in mostra su misura per voi, scoprite le visite guidate per singoli visitatori:

Per la mostra Da Kandinsky a Pollock. La grande arte dei Guggenheim
ogni giovedì alle 17.30 e ogni sabato alle 16.30.
Altri appuntamenti disponibili su prenotazione:
ogni giovedì alle 19.30;
ogni sabato alle 18.30;
ogni domenica alle 18.00.
Il costo della visita è di € 8,00 a persona e non comprende il biglietto d’ingresso.
Sistema radio auricolare obbligatorio € 1,00 a persona disponibile in biglietteria.

Prenotazione obbligatoria
lunedì-venerdì
9.00-13.00; 14.00-18.00
prenotazioni@palazzostrozzi.org

Per la mostra Liu Xiaodong: Migrazioni
ogni domenica alle 16.30
La visita è gratuita con il biglietto d’ingresso alla mostra, non è necessaria la prenotazione.

Insomma per chi resterà o arriverà a Firenze, per chi si concederà la bellezza dell’arte o il meritato relax, questo primo fine settimana di giugno si preannuncia davvero imperdibile.

“Da Kandinsky a Pollock. La grande arte dei Guggenheim” altri 5 capolavori

La mostra Da Kandinsky a Pollock. La grande arte dei Guggenheim, curata da Luca Massimo Barbero, permette un eccezionale confronto tra opere fondamentali di maestri europei dell’arte moderna, insieme a grandi dipinti e sculture di alcune delle maggiori personalità dell’arte americana degli anni cinquanta e sessanta. Le opere, in prestito dalla collezione Guggenheim di New York e da Venezia e da altri prestigiosi musei internazionali, offrono uno spaccato di quella straordinaria ed entusiasmante stagione dell’arte del Novecento di cui Peggy e Solomon Guggenheim sono stati attori decisivi.

Vi avevamo già segnalato cinque capolavori fra le opere imperdibili, esposte a Palazzo Strozzi fino al 24 luglio 2016, a grande richiesta ve ne proponiamo altri cinque.

Vasily Kandinsky, Verso l’alto (Empor)

Vasily Kandinsky ottiene l’effetto di un’energia che si leva verso l’alto agganciando le forme tra loro e bilanciandole ai lati di una linea verticale continua. Forme geometriche e semicerchi in quest’opera si compongono in una struttura sospesa in un fondo di ricco color turchese e verde. Un semicerchio è delicatamente appoggiato alla base appuntita, un’altra forma semicircolare, slittando lungo il diametro verticale, supera il semicerchio più grande per invadere lo spazio al di sopra. Un disegno lineare nell’angolo superiore destro di questa tela fa eco alla spinta verticale del motivo centrale. La configurazione ricorda la lettera E, come la forma nera ritagliata nella base del motivo centrale. Queste forme possono essere intese sia come puri motivi grafici, sia come ammiccanti allusioni all’iniziale di Empor, il titolo originale del dipinto. Il carattere fisionomico testimonia l’associazione al Bauhaus di Dessau di Kandinsky con gli altri artisti del Blaue Vier, Paul Klee e Alexej Jawlensky. Nel 1929 Jawlensky espone, in una mostra del Blaue Vier, sedici teste astratte che offrono a Kandinsky il modello per grandi volti astratti, composti di piani geometrici di colore non naturalistico, nei quali i lineamenti erano definiti con segmenti marcati. Tuttavia, il metodo di lavoro di Kandinsky è più vicino a quello di Klee, che partiva da forme scelte a intuito, che gradualmente arrivavano a suggerire corrispettivi nel mondo naturale. Diverso era il metodo di Jawlensky, che partiva da un modello reale per elaborarne l’astrazione.

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Vasily Kandinsky, Verso l’alto (Empor), ottobre 1929, Venezia, Collezione Peggy Guggenheim. Foto di David Heald

 

Arshile Gorky, Senza titolo

Arshile Gorky passa gran parte del 1944 ad Hamilton, Virginia, dove esegue diversi disegni, molti dei quali concepiti come studi preliminari per quadri. Quest’opera è preceduta da un tale studio, un disegno senza titolo del 1944, a essa strettamente collegato, che ne espone i motivi, la loro disposizione nella composizione e la distribuzione del colore. L’adesione entusiasta di Gorky all’ambiente naturale della Virginia rurale infonde al suo lavoro libertà espressiva. In questa tela compaiono allusioni paesaggistiche; il fondo bianco è uniforme, ma è vuoto all’estrema sommità della tela, e suggerisce un pezzetto di cielo, mentre la “terra”, sotto, pullula di forme vegetali e di colori di fiori. La tecnica del colore sgocciolato diluito con acquaragia, suggeritagli da Matta, produce una chiara idea di gravità. Le tecniche e la tematica del Surrealismo influenzano lo sviluppo del linguaggio di Gorky, che esprime in forme libere, organiche, vitalmente curvilinee. Enfatizzando il potenziale espressivo autonomo di linea, forma e colore, Gorky anticipa i modi dell’Espressionismo astratto.

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Arshile Gorky, Senza titolo, estate 1944, Venezia, Collezione Peggy Guggenheim. Foto di David Heald © Arshile Gorky by SIAE 2016.

 

Francis Bacon, Studio per scimpanzé

Francis Bacon, conosciuto soprattutto per le sue figure umane alienate e spesso mostruosamente distorte, realizza almeno una dozzina di tele che hanno per soggetto animali. Dipinge raramente dal vero, preferendo lavorare da fotografie. Affascinato dalla sconcertante affinità tra la scimmia e l’uomo, li mette a confronto per la prima volta nel 1949. Come i soggetti umani, così gli animali ci sono mostrati in ritratti in posa o istantanee, in cui appaiono passivi, urlanti o deformati da contorsioni. Lo scimpanzé della Collezione Peggy Guggenheim è rappresentato con relativa benevolenza, sebbene l’immagine indistinta, che testimonia l’interesse di Bacon per il movimento colto al volo, per gli effetti della fotografia e del cinema, renda difficile interpretarne la posa e l’espressione. Nel tipo e nella modalità della composizione richiama i dipinti di scimmie realizzati negli anni’50 da Graham Sutherland, con il quale Bacon stringe amicizia nel 1946. L’intelaiatura geometrica appena percettibile permette a Bacon di “vedere” meglio il soggetto, mentre la monocromia del fondo crea un contrasto deciso che aiuta a definirne la forma.

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Francis Bacon, Studio per scimpanzè, marzo 1957, Venezia, Collezione Peggy Guggenheim. Foto di David Heald © The Estate of Francis Bacon / All rights reserved / by SIAE 2016

 

Mark Rothko, Senza titolo (Rosso

Con la fine degli anni quaranta Rothko dipinge opere pienamente astratte, andando a contribuire allo sviluppo della pittura Color-field, caratterizzata da ampie superfici di colore. In Senza titolo (Rosso) il nero e il rosso saturi diventano entità dominanti fluttuando in forme rettangolari. Attraverso questi campi bidimensionali ricchi di colore l’artista traduce stati universali dello spirito, alludendo principalmente alla tragicità della condizione umana.

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Mark Rothko, Senza titolo (Rosso), 1968, Venezia, Fondazione Solomon R. Guggenheim, Collezione Hannelore B. e Rudolph B. Schulhof, lascito Hannelore B. Schulhof, 2012. Foto di David Heald © Kate Rothko Prizel & Christopher Rothko / ARS, New York, by SIAE 2016

 

Lucio Fontana, Concetto spaziale, Attese

Negli ultimi anni della sua carriera artistica Fontana è sempre più interessato all’allestimento della sua opera nelle molte mostre a lui dedicate in tutto il mondo, così come dell’idea di purezza raggiunta nelle sue ultime tele bianche. Ciò è evidente nella Biennale di Venezia del 1966, dove l’artista progetta un ambiente per le sue opere, e alla Documenta di Kassel del 1968. Fontana muore a Comabbio, Varese, il 7 settembre 1968.

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Lucio Fontana, Concetto spaziale, Attese, 1965, Venezia, Fondazione Solomon R. Guggenheim, Donazione, Fondazione Lucio Fontana. Foto di David Heald © Fondazione Lucio Fontana, Milano, by SIAE 2016

“Liu Xiaodong: Migrazioni”: il punto di vista del Direttore

di Arturo Galansino, Direttore Generale Fondazione Palazzo Strozzi

I progetti artistici di Liu Xiaodong nascono da un personale rapporto con i luoghi e le persone che li abitano; luoghi con cui egli entra in contatto attraverso un’indagine documentaristica fatta, oltre che di immagini pittoriche, anche di annotazioni scritte, disegni, schizzi, fotografie, video e immagini catturate con il cellulare. La sua pittura nasce dalla somma di queste ricerche scaturite dall’osservazione del reale e la potenza del suo linguaggio pittorico risiede proprio in questo rapporto “dal vero” e nella capacità di rallentare la visione richiamando l’attenzione su soggetti a prima vista ordinari. L’idea della mostra di Liu Xiaodong alla Strozzina di Palazzo Strozzi, organizzata in collaborazione con la galleria Massimo De Carlo, si è sviluppata partendo dalla contestualizzazione del lavoro dell’artista e dal suo interesse per la vicina Prato, dove forti sono le contraddizioni a causa dell’importante presenza cinese che caratterizza la città da circa trent’anni. L’approccio dell’artista alla realtà, oggetto della sua pittura, consiste proprio nella ricerca dell’imperfezione e del contrasto: “What I’m interested in are imperfect things filled with contradictions”, dichiara in un’intervista pubblicata nel catalogo della mostra Hometown Boy presso l’UCCA di Pechino (2010).

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Da un lato Prato, come luogo di intenso contrasto, e dall’altro la dirompente bellezza della campagna toscana, hanno rappresentato per l’artista i due punti di osservazione della realtà. Innamoratosi del paesino di Chiusure, tra le Crete senesi e la Val d’Orcia, dove in passato aveva trascorso un periodo di studio e lavoro, Liu Xiadong ha voluto rappresentarlo in mostra come luogo ideale e “sognato”, immagine della Toscana da cartolina meta del turismo internazionale, opposto alla Toscana delle fabbriche pratesi che invece ha rappresentato il sogno dei cittadini di Wenzhou alla ricerca del benessere economico. Il racconto che il pittore ha creato per Palazzo Strozzi nasce quindi da Prato e dall’immagine sognata della Toscana per poi proseguire fino ai confini d’Europa, a quei luoghi oggi attraversati dai migranti in cerca di una vita migliore. Il progetto Migranti, infatti, è stato concepito allargandosi concettualmente dai luoghi a noi noti fino a un discorso più ampio sulla crisi che interessa l’Europa in maniera sempre più grave e urgente. La serie di dipinti intitolata Refugees è dedicata ai migranti di oggi, quelli degli anni Dieci del Duemila, che fuggono per motivi sociali, umanitari e politici, diversamente dai cinesi provenienti dalla città-prefettura di Wenzhou giunti a Prato tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento per ragioni economiche. I soggetti di questi dipinti sono persone provenienti dalla Siria, dal Medioriente o dal Nord Africa, incontrate nel suo viaggio tra Vienna, Bodrum (Turchia) e Kos (Grecia) che hanno condiviso dei momenti di vita con l’artista.

 width=Liu Xiaodong, Refugees 4 (Rifugiati 4), 2015, Courtesy the artist and Massimo De Carlo, Milano/London/ Hong Kong

La serie Chinatown rappresenta invece persone e luoghi incontrati durante il suo soggiorno a Prato, come l’interno di un laboratorio tessile o i momenti di vita ordinaria e di relax colti durante le esplorazioni nel Macrolotto Zero, residenza della maggior parte dei cittadini cinesi pratesi. Non è soltanto il conflitto culturale e sociale che Liu Xiaodong qui vuol raccontare, ma anche la quotidianità e la consuetudine di vita di un gruppo sociale che ha una storia importante e un percorso unico nella storia italiana ed europea, come ci racconta il giornalista e sociologo Giorgio Bernardini nel saggio “>Sogni di gloria economica: i destini incrociati di Prato e Wenzhou nel catalogo e nella sala della mostra da lui curata e dedicata a questo tema. In tutte le sue opere lo stile pittorico di Liu Xiaodong è controllato e consapevole, immerso nella realtà che vuol registrare. Come un moderno macchiaiolo, scrive sempre in catalogo Francesco Bonami nel saggio “Pennellate istantanee”, l’artista sembra rifuggire un particolare coinvolgimento emotivo o espressivo e legarsi invece all’oggettività dell’immagine, filtrata dal primo approccio fotografico e video. Il pittore, che in passato aveva avuto aspirazioni di regista cinematografico, presenta qui i suoi dipinti assieme ad un film documentario realizzato da Yang Bo, direttore della Shengshizeyu Advertising Company di Pechino.

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In alto Liu Xiaodong, Chinatown 4, 2016. In basso Liu Xiaodong, Chinatown 3, 2015. Courtesy the artist and Massimo De Carlo, Milano/London/Hong Kong

Nel voler mostrare e descrivere il “vero”, Liu Xiaodong porta l’osservatore a soffermarsi sul proprio rapporto con le immagini, sulla realtà e, di conseguenza, sui processi mentali ed emotivi messi in atto nei diversi momenti, esperienze, episodi della storia e della nostra vita. L’arte di Xiaodong ci dà occasione di riflettere sul nostro modo di vedere, capire, sentire la realtà. Ci porta a guardarci dall’esterno ed esplorare chi siamo.

“Da Kandinsky a Pollock. La grande arte dei Guggenheim” in 5 capolavori

La mostra Da Kandinsky a Pollock. La grande arte dei Guggenheim, curata da Luca Massimo Barbero, permette un eccezionale confronto tra opere fondamentali di maestri europei dell’arte moderna, insieme a grandi dipinti e sculture di alcune delle maggiori personalità dell’arte americana degli anni cinquanta e sessanta.
Le opere, in prestito dalla collezione Guggenheim di New York e da Venezia e da altri prestigiosi musei internazionali, offrono uno spaccato di quella straordinaria ed entusiasmante stagione dell’arte del Novecento di cui Peggy e Solomon Guggenheim sono stati attori decisivi.

Oggi abbiamo selezionato 5 capolavori fra le opere imperdibili, esposte a Palazzo Strozzi fino al 24 luglio 2016.

Paul Klee, Ritratto di Frau P. nel Sud (Bildnis der Frau P. im Süden)

La vacanza in Sicilia dell’estate del 1924 fornisce a Paul Klee gli spunti per vari acquerelli, nei quali riesce a rendere il colore, la luce e l’atmosfera di una specifica area geografica, mentre delinea alcuni personaggi. Questo ritratto è una bonaria caricatura di due impeccabili signore del nord, con assurdi cappellini del tutto insufficienti a proteggerle dal forte sole mediterraneo. Il colore vivido e caldo, ora denso ora diluito, di consistenza quasi atmosferica è contenuto in contorni graficamente semplificati. La forma a cuore sul petto di Frau P. è un motivo ricorrente nell’opera di Klee, dove, a seconda de casi, rappresenta una bocca, un naso o un busto. Il motivo è considerato dall’artista il tramite tra il mondo organico e quello inorganico, poiché simbolizza forze vitali e nel contempo funge da “forma mediatrice tra il cerchio e il rettangolo”.

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Paul Klee, Ritratto di Frau P. nel Sud (Bildnis der Frau P. im Süden), 1924, Venezia, Collezione Peggy Guggenheim. Foto di Carmelo Guadagno

 

Max Ernst, Il bacio (Le Baiser)

Dalle descrizioni ironicamente cliniche di avvenimenti del periodo dada Max Ernst passa alla celebrazione della sessualità disinibita nelle sue opere surrealiste. Il suo legame e matrimonio con la giovane Marie-Berthe Aurenche nel 1927 gli ispirano probabilmente il soggetto erotico di questo e altri dipinti di quell’anno. Le principali linee che compongono quest’opera possono essere state determinate dalle tracce di una corda lasciata cadere sulla superficie preparatoria, procedimento conforme ai concetti surrealisti sull’importanza degli effetti casuali. Ernst tuttavia usa un sistema reticolare coordinato per riportare le sue configurazioni di corda sulla tela, sottoponendo così questi effetti casuali a una manipolazione consapevole. Il gruppo centrale a forma di piramide e il gesto dell’abbraccio della figura superiore ne Il bacio, hanno suggerito paragoni con composizioni rinascimentali, e in particolar modo con la Madonna e Sant’Anna di Leonardo da Vinci (Musée National du Louvre, Parigi).

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Max Ernst, Il bacio (Le Baiser), 1927, Venezia, Collezione Peggy Guggenheim. Foto di David Heald © Max Ernst, by SIAE 2016

 

Marcel Duchamp, Scatola in una valigia
L.H.O.O.Q. da Boîte-en-valise

Si tratta della prima di un’edizione de luxe di valigette da viaggio (Louis Vuitton), che raccoglie sessantuno riproduzioni di opere di Duchamp. Contiene un “originale”, una dedica a Peggy Guggenheim, che sostiene economicamente Duchamp in questa sua produzione, una miniatura del famoso orinatoio rovesciato, Fontana del 1917, e una riproduzione di un “ready-made rettificato” del 1919 della Gioconda di Leonardo da Vinci, con barba e baffi e l’iscrizione “L.H.O.O.Q.”. La sequenza delle lettere pronunciate in francese formano la frase “elle a chaud au cul”, decorosamente tradotta da Duchamp come “c’è il fuoco là sotto”.

 width=A sinistra Marcel Duchamp, L.H.O.O.Q. da Boîte-en-valise. A destra Marcel Duchamp, Scatola in una valigia (Boîte-en-valise), 1941, valigia di pelle contenente copie in miniatura, riproduzioni a colori e una fotografia delle opere dell’artista con aggiunte a matita, acquerello e inchiostro, Venezia, Collezione Peggy Guggenheim. Foto di Sergio Martucci © Succession Marcel Duchamp, by SIAE 2016

 

Jackson Pollock, La donna luna

Paul Jackson Pollock nasce a Cody, Wyoming, il 28 gennaio 1912. Cresciuto tra l’Arizona e la California, nel 1928 inizia gli studi di pittura alla Manual Arts High School di Los Angeles. Nell’autunno del 1930 si reca a New York, dove studia all’Art Students League con Thomas Hart Benton, che lo incoraggerà durante tutto il decennio. Nei primi anni trenta Pollock è ormai a conoscenza delle pitture murali di José Clemente Orozco e Diego Rivera. Sebbene viaggi molto negli Stati Uniti, trascorre la maggior parte del tempo a New York, dove si stabilisce definitivamente nel 1934. Tra il 1935 e il 1942 lavora per il Federal Art Project della Works Progress Administration e nel 1936 partecipa al Workshop di David Alfaro Siqueiros, sempre a New York. Nel 1943 Peggy Guggenheim non solo gli dedica la sua prima personale nella galleria/museo Art of This Century, New York, ma gli offre un contratto che gli permette di dedicarsi esclusivamente alla pittura fino al 1947. Fino a metà anni quaranta si ravvisa in Pollock l’influenza di Pablo Picasso e del Surrealismo. In quegli anni partecipa a diverse mostre di arte surrealista e astratta, tra cui “Natural, Insane, Surrealist Art” ad Art of This Century, nel 1943, e “Abstract and Surrealist Art in America”, allestita da Sidney Janis alla Mortimer Brandt Gallery di New York nel 1944. A metà anni quaranta Pollock dipinge, invece, orami in maniera astratta. Nel 1947 emerge lo stile che lo caratterizzerà, quello del dripping, della pittura fatta colare direttamente sulla tela o schizzata grazie a vari utensili, come mestichini, bastoncini, lame. Nell’autunno del 1945 sposa Lee Krasner e si stabilisce a Springs, East Hampton, nei pressi di New York. Nel 1950 Peggy Guggenheim organizza la sua prima personale in Europa, al Museo Correr di Venezia. Nel 1952 ha luogo la sua prima retrospettiva al Bennington College, nel Vermont, organizzata da Clement Greenberg. Partecipa a diverse collettive tra cui, a partire dal 1946, quelle annuali al Whitney Museum of American Art di New York e, nel 1950, alla Biennale di Venezia.

Nonostante sia famoso in tutto mondo e le sue opere vengano esposte in molti paesi, Pollock non viaggerà mai al di fuori degli Stati Uniti. Muore in un incidente automobilistico a Springs l’11 agosto 1956. Come altri membri della New York School Jackson Pollock risente, nei suoi primi lavori, dell’influenza di Joan Miró e Pablo Picasso e fa proprio il concetto surrealista dell’inconscio come fonte d’arte. Alla fine degli anni ’30 Pollock introduce un linguaggio figurativo basato su figure totemiche o mitiche, segni ideografici e ritualismi interpretati come referenti di esperienze rimosse e memorie culturali della psiche. La donna luna rimanda all’impianto cromatico e alla composizione di Picasso. Il soggetto della donna luna, ricorrente in diversi disegni e dipinti dei primi anni ’40, può essere stato ispirato a Pollock da fonti diverse. In questo periodo molti artisti, tra cui gli amici William Baziotes e Robert Motherwell, sono influenzati dalle immagini elusive e allucinatorie di Charles Baudelaire e dei simbolisti francesi. Nel brano “Benefizi della luna”, nello “Spleen di Parigi”, Baudelaire si rivolge al “riflesso della temibile Divinità, fatidica madrina, nutrice venefica di tutti quanti i lunatici”. È possibile che Pollock conoscesse la poesia, ma è più verosimile che fosse pervaso dall’interesse per Baudelaire e i simbolisti, intenso in quel periodo.

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Jackson Pollock, La donna luna (The Moon Woman), 1942, Venezia, Collezione Peggy Guggenheim. Foto di David Heald © Pollock-Krasner Foundation / Artists Rights Society, ARS, New York, by SIAE 2016

Alexander Calder, Luna gialla
Nell’autunno 1931 Calder crea i primi oggetti cinetici, o mobile, dotati di motori elettrici. Presto si rende conto che le sculture potevano muoversi da sole. In questo caso l’opera, sensibile alle correnti d’aria, oscilla spontaneamente. Secondo Calder “un mobile è una poesia che la gioia di vivere e la sorpresa fanno danzare”. Realizzato interamente a mano dall’artista, Luna gialla evoca uno spazio lontano, con stelle e pianeti orbitanti, dove la luna gialla controbilancia il cerchio rosso, probabile simbolo di un sole caldo. È probabile che sia stato ispirato da una visione commovente, su orizzonti contrapposti, di un sole nascente e una luna piena calante, cui Calder assiste su una nave mercantile al largo del Guatemala, nel 1922.

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Alexander Calder, Luna gialla, 1966, Venezia, Fondazione Solomon R. Guggenheim, Collezione Hannelore B. e Rudolph B. Schulhof, lascito Hannelore B. Schulhof, 2012. Foto di David Heald © Calder Foundation New-York, by SIAE 2016

Fonte: www.guggenheim-venice.it

“Rappresentare le migrazioni” di Liu Xiaodong

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Lo scorso settembre, la Fondazione Palazzo Strozzi mi ha invitato ad andare a Prato. Parte della città è quasi interamente popolata da cinesi, che vi abitano e vi procreano da ormai due o tre generazioni. La pelletteria e i capi d’abbigliamento prodotti nelle loro fabbriche di Prato sono venduti in tutto il mondo. Dopo Prato ho anche tentato di seguire il tragitto che i rifugiati siriani stavano compiendo in quel periodo per entrare in Europa. Dalla penisola di Akyarlar, nel sud della Turchia, all’isola di Kos, e poi alla ferrovia che collega il confine ungherese a quello austriaco, fino ad arrivare alla stazione centrale di Vienna. Lungo il percorso, oltre ai rifugiati siriani c’erano anche molti afghani, pachistani, iraniani e africani.

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Liu Xiaodong, Sketched map of refugee trail to Europe 2015-2016. Courtesy Liu Xiaodong studio

La migrazione è sempre stata e sempre sarà un fenomeno ineludibile del genere umano, dal passato più remoto sino al futuro. Il desiderio di trovare un posto migliore, una vita più perfetta, è intrinseco nell’uomo. Le migrazioni sono colme di speranze ed energie e gravate da ansie e perdite.

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In alto Liu Xiaodong, Refugees 4 (Rifugiati 4), 2015, Courtesy the artist and Massimo De Carlo, Milano/London/ Hong Kong; in basso Liu Xiaodong, Photo paintings. Courtesy Liu Xiaodong studio.

Credo che il problema e l’angoscia che affliggono l’Europa siano legati alla necessità di trovare un modo per preservare le tradizioni della sua società e insieme gestire le difficoltà scaturite dalla convivenza nel continente di una moltitudine di persone delle culture più disparate. È qualcosa di analogo alla mia curiosità e apprensione verso il cambiamento, quando so che potrebbe essere un bene ma al contempo ho paura che minaccerà il mio vecchio stile di vita. I miei genitori invecchiano e muoiono, mia figlia cresce e affronterà problemi e pericoli di ogni sorta. Sono molto angosciato. Non posso fare altro che dipingerli. Dipingere ciò che vedo. Ma in una società in mutamento non vi è un’unica soluzione, un’unica risposta per placare quest’angoscia. L’Europa ed io siamo entrambi legati alle nostre angosce.

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Liu Xiaodong, Chinatown 3, 2015, Courtesy the artist and Massimo De Carlo, Milano/London/Hong Kong.

Vi invitiamo a visitare la mostra Liu Xiaodong: migrazioni alla Strozzina di Palazzo Strozzi fino al 19 giugno 2016.

Vi aspettano inoltre una serie di appuntamenti che approfondiscono le tematiche della mostra attraverso conferenze e talk che si terranno presso la Strozzina di Palazzo Strozzi: qui il calendario completo dell’iniziativa.