I cinque punti che caratterizzano la retrospettiva, in mostra a Palazzo Strozzi fino al 20 gennaio 2019
1)
Perché è la prima mostra dedicata da Palazzo Strozzi a un’artista donna, la più importante rappresentante dell’arte performativa. Assolutamente inedita per l’Italia in questa formula immersiva, Marina Abramović. The Cleaner offre la possibilità agli spettatori di conoscere a tutto tondo l’arte di Marina Abramović, che con le sue opere e la sua storia – 50 anni di carriera – ha invaso tutti gli spazi del Palazzo: dal cortile alla Strozzina al Piano Nobile.
2)
Perché la mostra è un racconto speciale del rapporto di Marina Abramović con l’Italia, dove hanno avuto luogo alcune delle sue memorabili performance, che sono ripercorse nell’esposizione mettendo in evidenza il rapporto strettissimo dell’artista col nostro Paese.
3)
Perché Marina Abramović è l’artista che più di ogni altra segna la nostra contemporaneità: pur avendo fatto parte del secolo scorso, ha traghettato la sua arte nel Terzo Millennio.
4)
Perché è un’artista che, riflettendo sulla propria vita, da sempre ha portato alla ribalta temi cruciali, che ci riguardano tutti, riuscendo a comunicare come nessun altro artista col presente, interpretandone le contraddizioni e le urgenze. Ha saputo “far pulizia”, tenendo solo quello che serve ed è essenziale.
5)
Perché sarà possibile per il visitatore partecipare direttamente alle re-performance che ogni giorno vengono realizzate negli spazi di Palazzo Strozzi, tuffandosi in esperienze che rendono questa mostra un vero e proprio e indimenticabile esperimento vivente.
Manifesto della vita di un artista Marina Abramović
L’artista non dovrebbe mentire
a se stesso
o ad altri
L’artista non dovrebbe rubare
idee altrui
L’artista non dovrebbe scendere
a compromessi
con se stesso o
per il mercato dell’arte
L’artista non dovrebbe uccidere
un altro uomo
L’artista non dovrebbe fare
di se stesso un idolo
L’artista non dovrebbe fare
di se stesso un idolo
L’artista non dovrebbe fare
di se stesso un idolo
La vita sentimentale di un artista
L’artista dovrebbe evitare
di innamorarsi di un altro artista
L’artista dovrebbe evitare
di innamorarsi di un altro artista
L’artista dovrebbe evitare
di innamorarsi di un altro artista
L’artista e l’erotismo
L’artista dovrebbe sviluppare
un punto di vista erotico sul mondo
L’artista dovrebbe essere erotico
L’artista dovrebbe essere erotico
L’artista dovrebbe essere erotico
L’artista e la sofferenza
L’artista dovrebbe soffrire
Dalla sofferenza scaturiscono
i lavori migliori
La sofferenza porta trasformazioni
Attraverso la sofferenza l’artista
trascende il proprio spirito
Attraverso la sofferenza l’artista
trascende il proprio spirito
Attraverso la sofferenza l’artista
trascende il proprio spirito
L’artista e la depressione
L’artista non dovrebbe essere
depresso
La depressione è una malattia e
dovrebbe essere curata
La depressione è improduttiva
per l’artista
La depressione è improduttiva
per l’artista
La depressione è improduttiva
per l’artista
L’artista e il suicidio
Il suicidio è un crimine contro la vita
L’artista non dovrebbe suicidarsi
L’artista non dovrebbe suicidarsi
L’artista non dovrebbe suicidarsi
L’artista e l’ispirazione
L’artista dovrebbe guardarsi dentro
in cerca di ispirazione
Più l’artista guarda dentro di se,
più diventa universale
L’artista è universo
L’artista è universo
L’artista è universo
L’artista e l’autocontrollo
L’artista non dovrebbe avere
autocontrollo sulla sua vita
L’artista dovrebbe avere totale
autocontrollo sul suo lavoro
L’artista non dovrebbe avere
autocontrollo sulla sua vita
L’artista dovrebbe avere totale
autocontrollo sul suo lavoro
L’artista e la trasparenza
L’artista dovrebbe dare e ricevere
contemporaneamente
La trasparenza è ricezione
La trasparenza è dare
La trasparenza è ricevere
La trasparenza è ricezione
La trasparenza è dare
La trasparenza è ricevere
La trasparenza è ricezione
La trasparenza è dare
La trasparenza è ricevere
L’artista e i simboli
L’artista crea i propri simboli
I simboli sono il linguaggio
dell’artista
Il linguaggio, poi, deve essere
tradotto
A volte è difficile trovare
la chiave
A volte è difficile trovare
la chiave
A volte è difficile trovare
la chiave
L’artista e il silenzio
L’artista deve comprendere il silenzio
L’artista deve creare uno spazio
perché il silenzio entri nel suo lavoro
Il silenzio è come un’isola in mezzo
a un oceano burrascoso
Il silenzio è come un’isola in mezzo
a un oceano burrascoso
Il silenzio è come un’isola in mezzo
a un oceano burrascoso
I possedimenti dell’artista
I monaci buddisti consigliano
di possedere soltanto nove cose:
1 veste per l’estate
1 veste per l’inverno
1 paio di scarpe
1 scodella per elemosinare il cibo
1 zanzariera
1 libro di preghiere
1 ombrello
1 tappetino su cui dormire
1 paio di occhiali se necessari
L’artista dovrebbe decidere da solo
un minimo numero di oggetti
da possedere
L’artista dovrebbe avere sempre più
di sempre meno
L’artista dovrebbe avere sempre più
di sempre meno
L’artista dovrebbe avere sempre più
di sempre meno
Lista di amici dell’artista
L’artista dovrebbe avere amici che
elevino il suo spirito
L’artista dovrebbe avere amici che
elevino il suo spirito
L’artista dovrebbe avere amici che
elevino il suo spirito
Lista di nemici dell’artista
I nemici sono molto importanti
Il Dalai Lama ha detto che è facile
provare compassione per gli amici,
molto meno per i nemici
L’artista deve imparare a perdonare
L’artista deve imparare a perdonare
L’artista deve imparare a perdonare
L’artista e la solitudine:
L’artista deve passare lunghi periodi
di solitudine
La solitudine è estremamente
importante
lontano da casa
lontano dal proprio studio
lontano dalla famiglia
lontano dagli amici
L’artista dovrebbe passare molto
tempo vicino alle cascate
L’artista dovrebbe passare molto
tempo vicino a vulcani in eruzione
L’artista dovrebbe passare molto
tempo a osservare fiumi che
scorrono veloci
L’artista dovrebbe passare molto
tempo a guardare l’orizzonte,
dove mare e cielo si incontrano
L’artista dovrebbe passare molto
tempo a guardare le stelle nel cielo
notturno
L’artista e il lavoro
L’artista dovrebbe evitare di andare
ogni giorno nel suo studio
L’artista non dovrebbe trattare
i propri orari di lavoro come fa
un impiegato di banca
L’artista dovrebbe esplorare la vita
e lavorare solo quando un’idea
gli compare in sogno, o durante
il giorno come una visione
che sorge di sorpresa
L’artista non dovrebbe ripetersi
L’artista non dovrebbe produrre
troppo
L’artista dovrebbe evitare
l’inquinamento prodotto
dalla sua arte
L’artista dovrebbe evitare
l’inquinamento prodotto
dalla sua arte
L’artista dovrebbe evitare
l’inquinamento prodotto
dalla sua arte
Diversi scenari di morte
L’artista deve essere consapevole
della propria mortalità
per l’artista, non e importante
soltanto come vive, ma anche
come muore
L’artista dovrebbe osservare
i simboli dei propri lavori per trovare
i segni dei vari scenari di morte
L’artista dovrebbe morire in modo
consapevole senza paura
L’artista dovrebbe morire in modo
consapevole senza paura
L’artista dovrebbe morire in modo
consapevole senza paura
Diversi scenari di funerale
L’artista dovrebbe dare istruzioni
per il proprio funerale, in modo che
tutto sia svolto come vuole lui
Il funerale è l’ultima opera d’arte
dell’artista prima di andarsene
Il funerale è l’ultima opera d’arte
dell’artista prima di andarsene
Il funerale è l’ultima opera d’arte
dell’artista prima di andarsene.
Avvicinare i più giovani ai linguaggi dell’arte contemporanea
Dal 21 settembre 2018 al 20 gennaio 2019 Palazzo Strozzi ospita una retrospettiva completa dedicata a Marina Abramović. Ci troviamo di fronte a un gigante dell’arte mondiale che porta a Firenze circa cento opere realizzate nel corso della sua carriera, dagli esordi degli anni Sessanta e Settanta, fino ai lavori realizzati negli anni più recenti. Marina Abramović è un’artista che viene studiata sui libri di scuola e il suo lavoro ha segnato un’intera stagione dell’arte occidentale, quella della performance art. La mostra ospita video, fotografie e oggetti legati alle sue celebri performance, che saranno proposte nuovamente dal vivo all’interno delle sale dell’esposizione da un gruppo di giovani performer formati appositamente per l’occasione.
Per la nostra istituzione la possibilità di poter collaborare con una figura del calibro di Marina Abramović è sicuramente motivo di orgoglio e la mostra conferma l’impegno della Fondazione Palazzo Strozzi nel promuovere i linguaggi artistici del Novecento e dell’arte contemporanea attraverso i suoi principali rappresentanti.
A tale soddisfazione si accompagna però la responsabilità di dover rendere l’arte di questa artista accessibile a ogni tipologia di visitatore, compresi i più giovani. L’avvicinamento all’arte di bambini e adolescenti è uno dei principali obiettivi della Fondazione, e sebbene alcuni contenuti della mostra possano essere considerati sensibili e poco adatti a un pubblico di giovanissimi, abbiamo comunque deciso di tenere fede alla tradizionale apertura di Palazzo Strozzi nei confronti dei più giovani. Questo breve testo costituisce una piccola parte del lavoro che abbiamo fatto per informare genitori, famigliari e insegnanti sulle opportunità di visita della mostra con bambini e ragazzi.
Marina Abramović a Firenze. Le Attività per Bambini: Gruppi Scuola e Famiglie
In occasione della mostra Marina Abramović. The Cleaner invitiamo, come sempre, gli insegnanti della scuola ad accompagnare le proprie classi a Palazzo Strozzi per prendere parte alle attività condotte da educatori esperti. Le visite guidate e i laboratori sono disponibili per le classi della scuola dell’infanzia (dai 4 anni), della scuola primaria, secondaria di primo e secondo grado. Ogni attività proposta prevede percorsi che tengono conto delle diverse età dei partecipanti, ideati per soffermarsi solo sulle opere più significative e adatte all’età dei partecipanti. In occasione della mostra, abbiamo deciso di fornire più informazioni preliminari agli insegnanti, indicando materiali da utilizzare per preparare la classe alla visita e quali opere saranno osservate dal gruppo durante il percorso in mostra. Per i bambini di 4a e 5a elementare sono previsti anche degli incontri in classe preliminari alla visita della mostra per fornire maggiori strumenti interpretativi e per tracciare una relazione tra la performance art e i mezzi artistici più tradizionali e riconoscibili come la scultura e la pittura (Come diventare un’opera d’arte). In generale, la mostra di Marina Abramović fornirà alla scuola un’occasione unica per riflettere sull’uso del proprio corpo e sul suo linguaggio, aspetto che talvolta viene tralasciato dalle programmazioni didattiche, mentre per i più grandi la riflessione si allargherà al tema della diffusione della propria immagine, così importante nell’epoca dei social network.
Anche le famiglie potranno partecipare alla mostra attraverso le attività proposte e anche in questo caso la progettazione della visita e del laboratorio creativo che la completa è stata realizzata tenendo in considerazione le differenze di età dei bambini. Per le famiglie con bambini dai 3 ai 6 proponiamo di vistare la mostra partecipando a Oggetti magici(mercoledì pomeriggio, una volta al mese), mentre per coloro che vogliono accompagnare bambini e ragazzi tra i 7 e i 12 anni ogni domenica mattina possono partecipare al laboratorioVestirsi d’energia. Nel corso di queste attività adulti e bambini potranno condividere un momento creativo prendendo spunto dall’osservazione di alcune opere selezionate nel percorso della mostra.
Per la prima volta inoltre è stato creato uno specifico materiale dedicato a giovani e adulti (da 14 anni in su), il Kit Mostra.
Il Kit è composto da un libro con approfondimenti sull’artista e piccoli esercizi da fare nelle sale per avvicinarsi all’arte performativa. Il Kit è gratuito e sempre disponibile al Punto Info della mostra.
L’importanza di un percorso
L’allestimento della mostra prevede che le opere più forti, quelle legate alla fase degli anni Settanta, siano esposte nel piano della Strozzina. Pur invitando chiunque a partecipare alla mostra, sconsigliamo la visita di questa sezione ai minori di 14 anni non accompagnati da un adulto. Lo stesso vale per una saletta del piano nobile, il cui accesso sarà vietato ai minori di 18 anni. Tutti i percorsi per scuole e famiglie si svolgono al Piano Nobile della mostra dove sono ospitate le opere realizzate dalla fine degli anni Settanta agli anni Duemila, cioè dalla fase del rapporto artistico e sentimentale tra Marina Abramović e il compagno Ulay fino ai capolavori più recenti come The Artist is Present e le opere interattive in cui il visitatore viene chiamato a prendere parte all’opera.
“Marina Abramović. The Cleaner”. Una mostra per tutti
Per la nostra istituzione e per il pubblico fiorentino e italiano la mostra Marina Abramović. The Cleaner è un’occasione irripetibile di incontro con un’artista fondamentale del nostro tempo, così come lo sono state recentemente le mostre di Ai Weiwei e Bill Viola tenutesi a Palazzo Strozzi rispettivamente nel 2016 e 2017.
La mostra di Marina Abramović a Firenze ci pone nuovamente di fronte a delle questioni a cui è necessario rispondere attraverso un lavoro di progettazione: come possiamo rendere l’incontro tra le sensazionali opere di Marina Abramović e il pubblico ancora più significativo? Come possiamo rendere il contesto dell’esperienza adatto a tutte le diverse tipologie di persone che quotidianamente entrano a Palazzo Strozzi?
Per rispondere a queste domande è opportuno considerare quella che è la missione di un’istituzione come la Fondazione Palazzo Strozzi: rendere l’arte accessibile al più ampio numero di persone possibile tenendo presente la diversità di ogni visitatore.
Cosa può offrire la mostra, per esempio, a una scuola, a un gruppo di adolescenti, a degli studenti universitari, a una famiglia, a una persona con disabilità? È necessario essere consapevoli e prepararsi alle diverse sensibilità, al diverso bagaglio di informazioni, alle diverse necessità del visitatore della mostra.
Tenendo chiaro in mente il nostro obiettivo, abbiamo deciso di non farci spaventare dal contenuto talvolta forte di alcune delle opere esposte, mantenendo tutta l’offerta per il pubblico che caratterizza le mostre di Palazzo Strozzi e rilanciando con nuovi progetti. Questo ha richiesto un lavoro diverso di progettazione delle attività e la preparazione di percorsi appositi che permettano anche alle categorie di pubblico più sensibili a certi contenuti di accedere alla mostra.
I nuovi progetti EDU dedicati alla mostra
Le famiglie con bambini trovano anche per questa mostra un calendario di attività a loro dedicate con i laboratori Oggetti magici(per famiglie con bambini tra i 3 e i 6 anni) e Vestirsi d’energia (per famiglie con bambini tra i 7 e i 12 anni).
In occasione della mostra di Marina Abramović, l’offerta di visite guidate e laboratori per le scuole,dall’infanzia all’università, è stata potenziata e diversificata con nuove attività in classe per la scuola primaria (Come diventare un’opera d’arte) e una nuova proposta con laboratorio in mostra dedicata agli studenti della scuola superiore che saranno invitati a sperimentare l’uso del proprio corpo per avvicinarsi ulteriormente alle opere di Marina Abramović (Corpi in azione).
Il Kit mostra,sempre disponibile gratuitamente al Punto Info, è stato pensato stavolta per adulti e giovani dai 14 anni in sù che, da soli o in gruppo, avranno voglia di mettersi in gioco e visitare la mostra con uno strumento inteso per stimolare l’approfondimento dei contenuti e l’interazione con le opere.
Proseguono anche i progetti speciali di accessibilità dedicati a persone con disabilità come Connessioni, A più voci (per persone con Alzheimer e chi se ne prende cura) e Sfumature, per ragazzi con disturbi dello spettro autistico). A questi si aggiunge un nuovo progetto, Corpo libero. Vivere l’arte con il Parkinson, dedicato alle persone con Parkinson che prende avvio proprio in occasione della mostra di Marina Abramović. Una nuova scommessa di Palazzo Strozzi che non poteva trovare contesto più adatto per trovare il suo inizio.
Per scoprire queste e tutte le altre proposte per il pubblico legate alla mostra Marina Abramović. The Cleaner vi invitiamo a visitare la sezione Educazione.
Marina Abramović a Firenze
Palazzo Strozzi ospita per la prima volta in Italia una retrospettiva completa delle opere di Marina Abramović, che è considerata universalmente uno degli artisti viventi più rappresentativi della performance art. Ci troviamo di fronte a un’artista che a partire dagli anni Settanta ha lasciato un segno evidente nella scenario artistico mondiale e il suo lavoro viene spesso preso come esempio di riferimento da artisti di tutto il mondo che oggi hanno l’opportunità di formarsi attraverso il suo metodo.
La fama di Marina Abramović deriva anche dal suo status di artista che è riuscita a fuoriuscire dai circuiti talvolta ristretti dell’arte, avvicinando attraverso le suo opere così toccanti quella larga fascia di pubblico che non frequenta abitualmente il mondo dell’arte contemporanea. Il motivo di questo successo dipende da fattori diversi, tra cui la capacità di promuovere la sua figura attraverso eventi espositivi di prim’ordine come la mostra organizzata dal MoMA di New York nel 2010, The Artist Is Present, a cui è seguita la distribuzione al cinema del noto documentario che ne riprende il titolo. Ma il motivo principale della sua fama risiede sicuramente nel modo in cui quest’artista ha saputo utilizzare la propria immagine, il proprio corpo e la propria storia personale all’interno dei sui lavori, tramite i quali stabilisce con i visitatori delle sue mostre un rapporto speciale basato sull’empatia.
Nasce il 30 novembre a Belgrado, ex Jugoslavia, in una famiglia benestante. I genitori Vojo e Danica, entrambi partigiani durante la Seconda guerra mondiale, fanno parte della dirigenza del Partito comunista del generale Tito. Marina passa i primi anni con la nonna materna, Milica, e viene profondamente influenzata dalla sua fede ortodossa.
1952
Nasce il fratello Velimir e Marina va a vivere con i genitori. La sua vita sotto il severo controllo materno è emotivamente molto difficile.
1953-1958
Sin da piccola Marina è incoraggiata a esprimere se stessa in modo creativo: a dodici anni le viene regalata la prima scatola di colori.
1960-1965
Pratica il disegno e la pittura: spesso rappresenta nature morte con fiori e ritratti figurativi.
1965-1970
Studia all’Accademia di Belle Arti di Belgrado. Le espressioni figurative diventano sempre più astratte.
1970-1973
Perfeziona gli studi all’Accademia di Belle Arti di Zagabria. Comincia a usare il corpo come strumento artistico e a dedicarsi al suono e all’arte performativa.
1971
Sposa l’artista concettuale Neša Paripović, ma continua a vivere con la madre.
1973
Incontra Joseph Beuys prima a Edimburgo e poi al Centro culturale studentesco di Belgrado (SKĆ). Gli happening di Beuys la colpiscono profondamente. Collabora con Hermann Nitsch. Nello stesso anno presenta la performance Rhythm 10 al Museo d’Arte Contemporanea di Villa Borghese a Roma.
1974
Allo SKĆ presenta Rhythm 5.Rhythm 4 è presentata alla Galleria Diagramma di Milano, mentre l’ultima opera della serie, Rhythm 0, viene presentata nella galleria Studio Morra di Napoli.
1975
Va ad Amsterdam per partecipare a un incontro internazionale di artisti performativi e vi conosce l’artista tedesco Ulay (Frank Uwe Laysiepen, nato nel 1943).
1976
Ventinovenne, divorzia da Paripović, abbandona la famiglia e il suo clima repressivo e si trasferisce ad Amsterdam con Ulay.
1977-1979
Marina e Ulay creano la serie Relation Works. Scrivono il manifesto Art Vital, che stabilisce la direzione della loro pratica artistica. Decidono di essere in perpetuo movimento e nei tre anni successivi vivono e lavorano in un furgone, mentre viaggiano in tutta Europa.
1980-1981
La coppia si trasferisce in un appartamento di Amsterdam, inserendosi nella vita artistica della città. Vanno in Australia dove vivono per nove mesi presso la tribù Pintupi nel Gran Deserto Victoria. Influenzati dalla cultura aborigena, creano la performance Nightsea Crossing.
1982
Nightsea Crossing è allestita a Documenta 7 di Kassel e in altri musei e spazi espositivi a Colonia, Düsseldorf, Berlino, Amsterdam, Chicago e Toronto. Per praticare la tecnica meditativa vipassana, Abramović e Ulay vanno a Bodhgaya, in India, dove incontrano il Dalai Lama e il suo principale mentore, il tulku Kyabje Ling Rinpoche.
1983
Marina e Ulay invitano il lama tibetano Ngawang Soepa Lucyar e lo sciamano aborigeno Charlie Watuma Taruru Tjungurrayi, loro compagno di viaggio nel Gran Deserto Victoria, a partecipare a una nuova versione di Nightsea Crossing.
1985
A Firenze, Gastkünstlern a Villa Romana, Marina e Ulay provano (insieme a Mr Mondo e a Michael Laub) la pièceFragilissimo, che sarebbe dovuta andare in scena al Teatro Niccolini: l’esecuzione fiorentina non ha luogo, ma l’opera viene presentata ad Amsterdam e Stoccolma.
1986
La coppia di artisti va in Cina per la prima volta. Dal momento del viaggio nell’outback australiano del 1980 i due lavorano al progetto di una performance lungo la Grande Muraglia cinese.
1988
Dopo anni di preparativi, ha inizio la camminata lungo la Grande Muraglia cinese per l’opera The Lovers. Marina parte dall’estremità orientale della Muraglia, mentre Ulay inizia dal lato occidentale e procede in direzione opposta. La performance sancisce la definitiva conclusione della loro relazione e collaborazione artistica, durata dodici anni.
1989
Le nuove opere di Marina Abramović da sola sono una serie di oggetti interattivi, noti come Transitory Objects. Le opere vengono esposte, tra gli altri, al Museum of Modern Art di Oxford, allo Städtische Kunsthalle di Düsseldorf e al Museum of Modern Art di Montreal.
1990
Si trasferisce a Parigi, mantenendo l’appartamento di Amsterdam. Viene invitata a partecipare alla famosa esposizione Magiciens de la Terre al Centre Pompidou di Parigi. Poco dopo nello stesso museo viene allestito The Lovers.
1991
Si reca in Brasile per continuare il lavoro sui Transitory Objects.
1992-1993
L’opera TheBiography, diretta da Charles Atlas, viene rappresentata per la prima volta a Madrid e successivamente a Documenta 9 di Kassel.
1994
The Biography è rappresentata in teatri di Parigi, Atene, Amsterdam e Anversa. Marina Abramović e Charles Atlas vanno a Belgrado per lavorare alla futura pièce Delusional, anch’essa basata sulla vita di Marina.
1995
Retrospettiva al Museum of Modern Art di Oxford.
1996
Festeggia il cinquantesimo compleanno con il vernissage di Marina Abramović: Objects, Performance, Video, Sound, retrospettiva organizzata allo Stedelijk Museum voor Aktuele Kunst di Gent.
1997
È invitata a rappresentare Serbia e Montenegro nel Padiglione jugoslavo della Biennale di Venezia, ma interrompe la collaborazione in contrasto sul soggetto dell’opera. La performance Balkan Baroque viene allestita quindi in un sottoscala del Padiglione Centrale ai Giardini, causando scalpore. Viene premiata con il Leone d’oro.
1998
Crea il laboratorio Cleaning the House, una serie di esercizi basati su concentrazione e pratica mentale.
2000
Il padre Vojo muore di tumore.
2001
In collaborazione con la Triennale di Arte Contemporanea Echigo-Tsumari in Giappone viene inaugurato il progetto interattivo Dream House come installazione permanente. Performance Mambo a Marienbad, realizzata nell’ex ospedale neuropsichiatrico di Volterra.
2002
The House with the Ocean View viene presentata alla Sean Kelly Gallery di New York: passa dodici giorni in silenzio, digiuno ed esposizione totale, sempre davanti al pubblico.
2004
L’Art Institute di Chicago le conferisce un dottorato onorario. L’artista torna a Belgrado per il progetto video Balkan Erotic Epic.
2005
Seven Easy Pieces viene presentata al Solomon R. Guggenheim Museum di New York. L’opera si compone di sette reinterpretazioni di performance degli artisti VALIE EXPORT, Vito Acconci, Bruce Nauman, Gina Pane, Josef Beuys e della stessa Abramović. Il progetto è il risultato del suo lavoro sulle re-performance, pensate per conservare le performance.
2006
Marina acquista una proprietà a Hudson (New York), che diventa residenza privata e punto di incontro per artisti performativi.
2007
La madre Danica muore a Belgrado.
2010
Il MoMA di New York inaugura la grande retrospettiva The Artist is Present, con molte re-performance delle sue opere e per l’intera durata della mostra propone la nuova e intensa The Artist is Present. Nello stesso anno fonda il Marina Abramović Institute (MAI), con lo scopo di operare attraverso le scienze, per creare una piattaforma teorica e pratica di arte performativa.
2011
The Artist is Present è allestita al Garage Center for Contemporary Culture di Mosca. La pièce autobiografica The Life and Death of Marina Abramović viene rappresentata per la prima volta al Manchester International Festival.
2012
Il documentario Marina Abramović: The Artist is Present viene presentato al Sundance Film Festival. L’esposizione Marina Abramović,Balkan Stories è organizzata alla Kunsthalle di Vienna.
2014
L’esposizione 512 Hours viene presentata alla Serpentine Gallery di Londra. Il progetto comprende una serie di esercizi interattivi che partono dal processo creativo dell’artista stessa e continuano con la partecipazione del pubblico.
2015
Le due grandi esposizioni Terra Comunal/Communal Land e Private Archaeology vengono inaugurate alla SESC Pompeia di São Paulo e al Museum of Old and New Art in Tasmania.
2016
Presso Penguin viene pubblicata l’autobiografia Walk Trhough Walls. A Memoir. La versione italiana Marina Abramović. Attraversare i muri. Un’autobiografia,esce l’anno successivo.
2017-2018
Marina Abramović. The Cleaner viene presentata al Moderna Museet di Stoccolma. La retrospettiva si sposta al Louisiana Museum of Modern Art a Humlebæk, in Danimarca e alla Bundeskunsthalle di Bonn, in Germania. Nel marzo 2018 Marina Abramović è a Firenze per preparare la mostra a Palazzo Strozzi.
NASCITA DI UNA NAZIONE. TRA GUTTUSO, FONTANA E SCHIFANO
Si è chiusa domenica 22 luglio Nascita di una Nazione. Tra Guttuso, Schifano e Fontana lo straordinario viaggio tra arte, politica e società nell’Italia tra gli anni Cinquanta e il periodo della contestazione attraverso le opere di artisti come Renato Guttuso, Lucio Fontana, Alberto Burri, Emilio Vedova, Enrico Castellani, Piero Manzoni, Mario Schifano, Mario Merz e Michelangelo Pistoletto.
Come in una sorta di “macchina del tempo” costruita per immagini, con un originale taglio curatoriale, l’esposizione ha narrato il periodo più fertile dell’arte italiana della seconda metà del Novecento, che oggi è riconosciuto come contributo fondamentale per il contemporaneo, ripercorrendo alcuni temi identitari di un Paese in cui l’arte viene concepita sia come forza innovatrice, sia come strumento di approfondimento di un più ampio contesto culturale.
Nascita di una Nazione ha visto per la prima volta riunite assieme opere emblematiche del fermento culturale italiano tra gli anni Cinquanta e la fine dei Sessanta: un itinerario artistico che è partito dal trionfo dell’Arte Informale per arrivare alle sperimentazioni su immagini, gesti e figure della Pop Art in giustapposizione con le esperienze della pittura monocroma fino ai nuovi linguaggi dell’Arte Povera e dell’Arte Concettuale. La mostra è stata apprezzata dal pubblico per la qualità delle opere esposte, ma anche per il tema trattato, che ha attirato, fin dalla sua apertura l’attenzione della stampa nazionale e internazionale con una presenza costante sulle principali testate locali e nazionali.
THE FLORENCE EXPERIMENT
Un progetto di Carsten Höller e Stefano Mancuso a cura di Arturo Galansino fino al 26 agosto 2018
Fino al 26 agosto 2018 Palazzo Strozzi ospita The Florence Experiment, il nuovo progetto site specific del celebre artista tedesco Carsten Höller e del neurobiologo vegetale Stefano Mancuso, a cura di Arturo Galansino, direttore della Fondazione Palazzo Strozzi: un grande esperimento che unisce arte e scienza studiando l’interazione tra piante ed esseri umani.
The Florence Experiment prevede la partecipazione diretta del pubblico attraverso due monumentali scivoli che permettono ai visitatori di scendere 20 metri di altezza dal loggiato del secondo piano al cortile e uno speciale spazio laboratoriale nella Strozzina, collegato alla facciata del Palazzo. The Florence Experiment mira a creare una nuova consapevolezza al modo in cui l’uomo vede, conosce e interagisce con un organismo vegetale, trasformando la facciata e il cortile di Palazzo Strozzi in veri e propri campi di sperimentazione scientifici e artistici su concetti come la coscienza, la sensibilità e le capacità comunicative ed emozionali di tutti gli esseri viventi attraverso una rinnovata alleanza tra arte e scienza.
Dopo tre mesi di analisi, ricerche e raccolta dati su migliaia di piante di fagiolo, il Professor Mancuso e il suo staff di scienziati ha condiviso i risultati preliminari dell’esperimentoconfermando che la presenza dell’uomo ha un effetto importante sulle piante.
La mostra “Nascita di una Nazione. Tra Guttuso, Fontana e Schifano” (11 marzo-22 luglio 2018) ha rappresentato la cornice ideale per lo sviluppo di un progetto di collaborazione tra il corso di Storia dell’Arte Contemporanea, tenuto dalla professoressa Alessandra Scappini (SAGAS, Università di Firenze), e la Fondazione Palazzo Strozzi. Gli studenti del corso hanno lavorato alla stesura di un saggio critico dedicato a una delle quattro aree tematiche di discussione emerse durante la visita alla mostra e approfondite in aula attraverso una bibliografia di riferimento:
arte e sistema (politico, socio – economico, culturale);
opera come creazione e operazione per il coinvolgimento del pubblico;
la linea analitica dell’arte contemporanea come indagine di carattere metalinguistico;
l’ironia come atteggiamento proprio dell’artista.
Gli elaborati sono stati valutati per l’originalità dalla proposta, la qualità della scrittura e l’approfondimento della ricerca. Pubblichiamo con grande piacere sul nostro blog i saggi di Anna De Bernardis, Marta Matassoni, Sabrina Piergiovanni ed Emma Rossi.
di Sabrina Pergiovanni
Sintesi
Fausto Melotti (Rovereto, 1901 – Milano, 1986), scultore, musicista, pittore e poeta dalla duplice formazione, tecnico-scientifica e artistica, spazia inizialmente tra l’ambito del gruppo astrattista milanese e le influenze dell’architettura razionale. La sua attività artistica assume diverse sfumature nel corso della sua vita ma a essere sempre costante è la presenza della musica che, attraverso le leggi matematiche, lo conduce a composizioni armoniche.
Parole chiave: Fausto Melotti, musica, armonia, contrappunto, geometria.
Introduzione: lo stato d’animo angelico non prescinde da quello geometrico
“L’artista deve avere un credo, ma, penso, lo deve anche tradire. Altrimenti, prigioniero nel suo tabernacolo, si vede consegnato a un equilibrio indifferente, come su un piano perfettamente orizzontale. La palla vive quando rotola in basso o è lanciata in alto”. Così scrisse Fausto Melotti (1981: 46-47) in uno dei suoi foglietti in cui custodiva gelosamente alcune sue riflessioni e memorie e che, dopo la sua morte, vennero parzialmente editi in volumi come Linee e Lo spazio inquieto.
Nato a Rovereto nel 1901, Melotti trascorse la sua fanciullezza a Firenze e, dopo essersi iscritto alla facoltà di Fisica e Matematica dell’Università di Pisa, si laureò come ingegnere elettrotecnico al Politecnico di Milano nel 1924. L’anno successivo, a Torino, lo zio lo introdusse nella bottega di Pietro Canonica che gli insegnò il mestiere di scultore; per due anni svolse il servizio militare a Civitavecchia e in seguito frequentò sporadicamente l’Accademia Albertina di Torino finché, nel 1928, non iniziò a studiare insieme a Lucio Fontana all’Accademia di Brera sotto l’insegnamento di Adolfo Wildt.
Dalla sua molteplice formazione musicale, tecnico-scientifica e artistica, ebbe origine la sua poetica espressa con grande chiarezza nel frontespizio del catalogo redatto per la sua prima personale alla Galleria Il Milione nel 1935: “L’arte è stato d’animo angelico, geometrico. Essa si rivolge all’intelletto e non ai sensi. […] Non la modellazione ha importanza ma la modulazione. Non è un gioco di parola: modellazione viene da modello = natura = disordine; modulazione da modulo = cànone = ordine. Il cristallo incanta la natura”(Fossati, 1971: 105). Le opere di Melotti sono costruite come secondo un’equazione che si rifà alla matematica mistica della scuola pitagorica (Celant, 1995: X) e alla sezione aurea (Fagiolo Dell’Arco, 1970: 101), dunque secondo un ordine rigorosamente geometrico fondato sulla modulazione intesa comemodulo architettonico; questa impostazione, oltre che essere frutto della sua cultura scientifica, secondo suo cugino Carlo Belli1 gli era stata trasmessa da Wildt ed era ciò che lo spingeva a volere il controllo assoluto sull’esecuzione fino a giungere alla creazione di volumi puri (Ferrari, 2016: 125). Ciò corrispondeva a una ricerca di equilibrio che Melotti riscontrava in Piero della Francesca, nell’architettura razionale e in quella della Grecia antica2 (Fossati, 1971: 106). Melotti riesce a liberare la sua arte dalla ripetitività monotona, modulando le sue opere secondo i principi dell’armonia e del contrappunto di Johann Sebastian Bach: il musicista tedesco infatti, sosteneva che i sensi, per mezzo dell’orecchio, potessero cogliere la musica solo come una sintesi delle sue varie parti, quindi ‘verticalmente’ come armonia; al contrario, l’intelletto per lui la poteva percepire anche ‘orizzontalmente’, tollerando molti dettagli nelle parti individuali.
In questo modo egli, al posto di una singola nota, inseriva alcuni gruppi di note che creavano conflitti incidentali, brutti e insensati sulla carta, ma convincenti e naturali quando ascoltati (Platt, 1948: 48-49, 56). Questo è ciò che si ritrova anche nella scultura di Melotti che “come Minerva nasce dal cervello”(Melotti, 1981: 46); quindi l’artista rinuncia all’amore per la materia: egli usava da asticelle d’ottone a garze, da catenelle a cartoncino, da stagnola a gesso, anticipando in un certo senso l’Arte Povera degli anni Sessanta (Ebony, 2016: 145) ma, prende le distanze da essa, in quanto per lui quei materiali non erano il fine bensì il mezzo (Pola, 2018: 124), cioè una serie di note musicali visive per le sue sculture (Celant, 1995: XVI). Melotti giunge, così, alla dematerializzazione della forma, a quella che si può definire una vera e propria anti-scultura3 (Hammacher, 1973: 5). Questa forte sintesi e purificazione degli elementi non porta solo a un nuovo ordine matematico ma anche a un senso di elevazione e di precarietà: da qui emerge il suo spazio interiore (Celant, 1995: VII), la sua stessa situazione emotiva (Drudi, 1974: 23) che costituisce quello che Melotti aveva definito “stato d’animo angelico”(Fossati, 1971: 105) e che lo porta a distaccarsi dall’ambiente della Galleria Il Milione a Milano4, presso la quale aveva esposto nel 1935. E’ vero che egli in alcune opere sembra fare riferimento alla narrazione favolistica e mitologica (Celant, 1995: VII) e alla memoria della sua infanzia5, ma questi riferimenti spesso non sono volontari e figurativi bensì si presentano attraverso concatenazioni concettuali casuali: proprio questa apertura al gioco del caso (Celant, 1995: XVI) riporta alla musica. Melotti infatti considerava l’artista come un compositore che cominciava davvero a lavorare solo quando “da un segno nasce[va] un altro segno”(Fiz, 2000: 13) e giungeva l’ispirazione. Riguardo a ciò, un esempio è la Scultura C (fig. 1), realizzata nel 1969 e più volte riprodotta, che presenta delle aste di ottone tra le quali spicca una trasversale che termina in un motivo a ricciolo che, da una parte, è frutto della sua concezione della scultura come processo per giungere a un’architettura armonica6 (Celant, 1995: XIX) e, dall’altra, simbolo della spirale logaritmica disegnata secondo le leggi geometriche e naturali della sezione aurea (Ferrari, 2016: 126). Questo ricorda, seppur con mezzi assai diversi, l’uso che fa Mario Merz in Lumaca (fig. 2), del 1970, della sequenza di Fibonacci per tracciare nella telecamera, che lo divide dallo spettatore, una spirale che parte da una vera lumaca. Lo scopo di Merz è di recuperare il flusso di energie cosmiche e vitali proveniente dalla natura e dal mondo archetipico, rifacendosi alla fillotassi7: “Io cerco l’Energia che scorre liberata dalle catene del ritmo, come la musica dell’India”(Masini, 1989: 939); la sua ricerca, dunque, non era poi tanto distante da quella di Melotti: entrambi leggevano la natura secondo leggi matematiche e geometriche che rendevano le loro opere d’arte pensiero e pura energia spirituale8 (Celant, 1995: IX), prescindendo dalla dicotomia tra astrazione e figurazione.
Il tema del doppio e l’azzeramento
La dicotomia melottiana tra “Esprit de geometrie” ed “Esprit de finesse”(Fagiolo Dell’Arco, 1970: 100) si manifesta nelle sue opere in vari modi. A tal proposito, una scultura paradigmatica è Ellissi (fig. 3). Essa, come risulta già dal titolo, è formata da diverse ellissi, cinque piene e sette vuote, disposte verticalmente in quattro gruppi di tre e una piena disposta orizzontalmente a dividere in due piani simmetrici la struttura. La simmetria, tuttavia, non viene rispettata dall’alternanza di pieni e vuoti: in alto troviamo a sinistra due ellissi vuote e una piena e a destra una vuota, una piena e una vuota; quest’ultimo schema si ripete, poi, anche in basso a sinistra, mentre dall’altro lato vediamo un’ellissi piena, una vuota e una piena.
In questa opera non c’è un punto di vista privilegiato poiché i protagonisti sono il ritmo di luce e ombra e l’alternanza di pieni e vuoti che lo genera; osservandola da diverse prospettive, si ottengono giochi visivi sempre nuovi, dati anche dal fatto che non c’è un vero e proprio bilanciamento: in qualunque direzione venga letto lo schema, verticalmente, orizzontalmente o diagonalmente, si hanno tre pieni e tre vuoti da una parte e due pieni e quattro vuoti dall’altra. Il normale bilanciamento dell’opera avrebbe dovuto prevedere che, in alto a sinistra, ci fosse un ‘terzetto’ di un pieno, un vuoto e un pieno come nel gruppo posto in diagonale rispetto a esso e opposto agli altri due. In tal modo vi sarebbe stato un chiasmo perfetto, ma per Melotti “una composizione armonica è bilanciata, ma una composizione bilanciata non è detto che sia armonica”(Melotti, 1971: 101): questa scultura, dunque, trova la propria armonia contrapponendo al tema del chiasmo la variazione, il contrappunto.
La contrapposizione melottiana di pieni e vuoti rappresenta la figura geometrica nel suo esserci e nel suo azzeramento: questa emanazione di qualcosa di visibile e, allo stesso tempo, invisibile costituisce un processo che dall’interno si proietta all’esterno, cancellando la linea di confine tra reale e irreale (Ferrari, 2016: 125-126). Alla base di tutto ciò, come avviene nella ricerca artistica dell’amico e compagno di Accademia Lucio Fontana, sta il desiderio di superamento dei limiti posti dal supporto artistico dell’opera stessa. In Concetto spaziale. Attesa (fig. 4) il capofila dello Spazialismo porta alle estreme conseguenze l‘incisione del maestro Wildt (Whitfield, 2016: 128) forando violentemente l’idropittura bianca su tela e generando un processo dall’esterno all’interno che invita l’osservatore a concepire fluidità e continuità tra lo spazio al di qua e al di là della tela. Il vuoto così, in entrambi i casi, diventa sostanza e pienezza di senso (Ferrari, 2016: 127).
Fontana, però, nella sua produzione fa uso di un altro elemento: il monocromo. Esso, impiegato anche in alcune opere di Melotti come Scultura n. 16 (fig. 5) e Scultura n. 23, si diffonde nell’arte italiana soprattutto negli anni Sessanta e rappresenta una tabula rasa, una volontà di azzeramento, con il fine di far riflettere sull’arte stessa ma anche sulle condizioni dell’essere umano (Barbero, Pola, 2018: 68).
Fig. 5 Fausto Melotti (Rovereto 1901-Milano1986), Scultura n. 16, 1935, gesso, cm 90 x 90, Collezione privata, Milano
In queste sculture, più che mai, l’astrattismo è un esercizio di sintassi compositiva di forme per calibrare luci e ombre: in Scultura n. 16 la superficie viene forata da forme cilindriche che poi si ripropongono in rilievo a costituire un’ellissi, doppia di quella incisa poco più a destra (Versari, 2007: 283). Addirittura queste opere sono meglio definibili come ‘pitture-oggetto’ perché avvicinabili a Superficie bianca (fig. 6) di Enrico Castellani e Bianco (fig. 7) di Agostino Bonalumi; esse rappresentano l’uscita dalla bidimensionalità della monocromia attraverso introflessioni ed estroflessioni che creano contrasti tra luce e ombre. La forma, inoltre, tende a staccarsi sempre più dalla parete e a diventare un bassorilievo (Barbero, Pola, 2018: 78-79). Un vero e proprio bassorilievo di Melotti, come indicato anche dal titolo stesso, è Bassorilievo lance (fig. 8). L’artista qui pone su una base quadrata, appesa alla parete, cinque fili di inox che fuoriescono dal perimetro e sostengono cerchi e triangoli insieme a un sesto filo, più breve, che invece regge un rettangolo pieno ma con sei fori: tre a forma di cerchio e tre di triangolo. Le cosiddette ‘lance’ sembrano le righe di un pentagramma e le figure geometriche, orientate in diverse direzioni, le note musicali. La prima, la terza e la quinta riga a partire da sinistra presentano combinazioni regolari: cerchio-cerchio, cerchio-triangolo, triangolo-triangolo. La seconda riga completerebbe questa serie con la combinazione triangolo-cerchio se non fosse che la distanza tra le due figure è ridotta dando luogo a una ‘variazione’; senza considerare, poi, la quarta riga che presenta solo un triangolo. Il rettangolo sul sesto filo sembra essere la matrice delle figure del ‘tema’ sebbene le dimensioni non coincidano: ciò crea con esse una contrapposizione di pieni e vuoti. Le ‘note’ della ‘variazione’, al contrario, non hanno nessuno stampo come a indicare la loro natura improvvisata: l’artista, come un musicista jazz (Celant, 1995: XVI), arricchisce il ritmo con nuovi elementi estemporanei che, però, come secondo le leggi del contrappunto, non devono rovinare le composizioni, bensì renderle più interessanti.
Fig. 5 Enrico Castellani (Castelmassa 1930-Celleno 2017), Superficie bianca, 1968, acrilici e tecnica mista su tela, cm 265 x 532, Collezione privata, Courtesy Fondazione Marconi, Milano. Enrico Castellani by SIAE 2018.
Tra astrazione e figurazione
Durante la seconda guerra mondiale, Melotti abbandonò momentaneamente l’astrattismo puro per avvicinarsi alla figurazione. Nacquero i primi Teatrini, piccole costruzioni a forma di scatoladove i soggetti sono personificazioni che ricordano figure della Metafisica9. L’artista, comunque, affermò di non aver abbandonato l’idea rigorosa di contrappunto ma di aver voluto creare qualcosa di più figurativo (Celant, 1995: XIV) e ciò è confermato da come queste strutture rispettassero la proporzione aurea e dal fatto che chiamasse i Teatrini Lieder, ossia musica da camera tedesca tra le più intime (Poli, 2017: 24).
Fig. 9 Fausto Melotti (Rovereto 1901-Milano1986), Metrò natalizio, 1965, ottone, cm 82 x 53 x 32, Collezione privata, Courtesy Repetto Gallery. Foto Daniele De Lonti.
Negli anni Sessanta Melotti, pur recuperando l’astrazione, continuò a costruire opere come ne fosse il regista occupandosi sempre anche dei rapporti tra ombre e luci. Queste tracce di figurazione sono evidenti in Metrò natalizio (fig. 9) che sembra la ‘smaterializzazione’ di un Teatrino. L’opera si presenta come un parallelepipedo sostenuto da asticelle che sembrano delimitare in maniera imprecisa il perimetro, raccordare delle parti interne più piccole e rialzare tutta la struttura.Il lato destro è quasi totalmente chiuso da una lastra di ottone con tre fori ovali allineati in alto e attraversati da catenelle. Al contrario, il lato sinistro è in gran parte vuoto poiché attraversato solo da una stretta fascia orizzontale; la ‘parete di fondo’ della scultura presenta solo una lunga e piatta fascia metallica verticale a cui ne corrisponde un’altra, lievemente spostata, nel lato opposto. In basso la superficie è discontinua e distribuita in due livelli, quello destro più basso e orizzontale, quello sinistro più alto e inclinato nel quale si impiantano altri rigidi fili di ottone che culminano con sfere variamente decorate. In mezzo a queste due lastre di base si trova un’altra struttura di modeste dimensioni che presenta un foro dal quale si vede un’asticella dall’estremità sferica decorata come le precedenti. In alto, infine, non c’è alcuna superficie ma si può vedere un piccolo elemento d’ottone dal perimetro irregolare e da cui partono dei fili allungati ascendenti e delle catenelle che vanno a poggiarsi nella parte alta del perimetro della parete frontale. Con ogni probabilità qui Melotti ha voluto rappresentare ciò che aveva scritto nei ‘foglietti’:
Il metrò a Natale Fischia come una cometa Sulle scale il freddo la nebbia la neve Si danno gli spintoni (Melotti, 1981: 45).
La struttura sembra essere il metrò (con i finestrini in alto a destra), l’elemento in alto la cometa, la piccola struttura centrale la locomotiva con il conducente e le figurine filiformi a lato, di ricordo giacomettiano, dovrebbero essere i passeggeri. Il tema del metrò rimanda alla tecnologia, al dinamismo e, di conseguenza, al rapporto che Melotti aveva con il Futurismo10: sono da osservare le catenelle che, in relazione al moto, possono generare rumore e, quindi, dare vita a una sinestesia, elemento che contribuisce alla resa maggiormente diafana di un’opera; tale processo si accentuerà dagli anni Settanta in poi.
Le effimere di Celle
Dal 1969 in poi Melotti non cercò più la perfezione geometrica precedente ma curò maggiormente l’aspetto fiabesco delle sue opere tentando di alleggerirle sempre di più, realizzando come degli ‘scheletri’ evanescenti e mobili. Uno dei migliori esempi per spiegare questo passaggio è la scultura Tema e variazioni II (fig. 10) del 198111. Questo complesso orchestrale formato da elementi diversi, ciascuno con il proprio ritmo singolare, dà un senso di trasparenza, instabilità e spiritualità, soprattutto nella sua nuova collocazione a Celle. Lo stesso Italo Calvino, amico di Fausto Melotti e da lui influenzato per le sue Città invisibili (Modena, 2004: 217-242), descrivendo queste strutture in Le effimere della fortezza, scrisse:
Noi guizziamo nel vuoto così come la scrittura sul foglio bianco e le note del flauto nel silenzio. Senza di noi, non resta che il vuoto onnipotente e onnipresente, così pesante che schiaccia il mondo, il vuoto il cui potere annientatore si riveste in fortezze compatte, il vuoto-pieno che può essere dissolto solo da ciò che è leggero e rapido e sottile (Fiz, 2000: 102-103).
In queste ‘effimere’, dunque, l’immaterialità è data non solo dalla loro stessa struttura sintetica, ma anche dal rapporto mimetico che instaurano con la natura (Celant, 1995: XXI); proprio come in Metrò natalizio il movimento di alcuni elementi mobili genera sinestesie, ma qui c’è una novità: a innescare i suoni è il vento che diventa così protagonista dell’opera12.
Conclusione
La grande diversità delle opere di Melotti può essere fraintesa come incertezza o aderenza da parte dell’artista a diversi movimenti (D’Aurizio, 2015: 119) ma, in verità, è proprio il contrario. Come disse il poeta Giovanni Raboni in proposito, questa era solo “una forma di grande coerenza con le richieste della propria interiorità”(Commellato, 2000: 16). Dalle sculture di carattere più geometrico e astratto a quelle più figurative, lo scopo è sempre quello dell’occupazione armonica dello spazio e il mezzo, insieme alla scultura, è la musica che si trova in varie forme: come ritmo con le contrapposizioni tra pieni e vuoti, presenze e assenze, luci e ombre; come silenzio nei monocromi; come intimo Lied nei Teatrini; come soave melodia (di origine più o meno naturale) nelle strutture con elementi mobili. Questo continuo rinvio delle opere di Melotti alla musica, considerando la sua concezione di unitarietà delle varie arti, è in fondo un riferirsi dell’arte a se stessa (Ciccuto, 1998: 117): estende il modulo architettonico anche a tutte le altre forme d’arte, porta la sinestesia delle sue poesie nelle sue sculture metalliche, mantiene la stessa attitudine registica dei Teatrini anche nelle opere astratte.
Fig. 10 Fausto Melotti (Rovereto 1901-Milano1986), Tema e variazioni II, 1981, inox e rame, cm 600 x 150 (ciascuna), Collezione Giuliano Gori, Fattoria Celle, Santomato
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Note
1 Autore di KN, testo definito da Kandinskij il “Vangelo dell’arte astratta”. 2 Questa era considerata da Melotti un modello fondamentale anche per l’importanza che l’archeologia aveva assunto a Rovereto in quegli anni grazie a personalità come Paolo Orsi e Federico Halbherr. 3 Da non confondere con l’arte informale, poiché Melotti non giunge mai a rappresentazioni irrazionali, inconsce e incontrollate come quelle di Emilio Vedova e Leoncillo, ma solamente antiformali (Celant, 1995: XVIII). 4 Un caso simile è quello di Osvaldo Licini secondo cui “la geometria può diventare sentimento, poesia più interessante di quella espressa dalla faccia dell’uomo, quadri che non rappresentino nulla ma che a guardarli procurino un vero riposo per lo spirito” (Scappini, 2010: 249). 5 “ricordi di fiabe lontane, di sogni; la nostra fanciullezza ci segue sempre, inutile volerla ignorare; ci segue con il ricordo dei nostri paesi, delle nostre vecchie case, dei nostri fiumi e prati” (Bacile, 1975: 56). 6 Concezione data dall’influenza del design Bauhaus e del pensiero morrisiano che contemplava l’integrazione fra le arti nella società. 7 La fillotassi è una branca della botanica che studia l’ordine con cui le varie entità botaniche vengono distribuite nello spazio, conferendo una struttura geometrica alle piante. 8 Spiritualità che, però, in Melotti poteva arrivare ad assumere delle sfumature religiose per la sua cultura cattolica e, soprattutto, per l’influenza che la dottrina di Antonio Rosmini (Fontana, 2005: 9), filosofo e teologo di Rovereto, ebbe sulla formazione della sua poetica attraverso il perseguimento dell’equilibrio tra ragione e religione. La risposta che ha dato artisticamente l’artista alla ricerca rosminiana è che “nello sviluppo inconsapevole, ovverossia nello sviluppo controllato e per altro verso incontrollabile, di tutta un’opera, la prima linea tracciata già ne tiene e manifesta il canone” (Melotti, 1981: 48): solo con il contrappunto si ottiene l’equilibrio, o meglio l’armonia. 9 E’ da notare, però, che mentre le figure dechirichiane si chiudevano in se stesse dando spazio al silenzio, Melotti racconta il silenzio concentrandosi nell’intimità della propria vita quotidiana individuale (Celant, 1995: XIV). 10 È chiara l’influenza della Ricostruzione futurista dell’Universo mediata dal contatto con Fortunato Depero negli anni in cui quest’ultimo si trovava a Rovereto (Celant, 1995: VII). 11 La scultura venne realizzata come riproduzione dell’omonima e più piccola opera del 1969 in occasione della mostra retrospettiva di Melotti al Forte Belvedere di Firenze; alla conclusione dell’evento Fausto Melotti e Giuliano Gori, proprietario della villa e della collezione di Celle a Santomato (Pistoia), decisero di sistemarla in uno specchio d’acqua enfatizzando così la leggerezza e la diafanità della struttura che adesso sembra levitare e vibrare. 12 Si può parlare allora di cinetismo naturale in opposizione a quello meccanico di Moholy Nagy e del Futurismo.
Ad oggi oltre 40.000 persone hanno vissuto l’esperienza The Florence Experiment, il nuovo progetto site specific del celebre artista tedesco Carsten Höller e del neurobiologo vegetale Stefano Mancuso, a cura di Arturo Galansino, direttore della Fondazione Palazzo Strozzi: un grande esperimento, ospitato a Palazzo Strozzi fino al 26 agosto, che unisce arte e scienza studiando l’interazione tra piante ed esseri umani. Dopo tre mesi di analisi, ricerche e raccolta dati su migliaia di piante di fagiolo, il Professor Mancuso e il suo staff di scienziati, hanno condiviso i risultati preliminari dell’esperimento. The Florence Experiment prevede la partecipazione diretta del pubblico attraverso due monumentali scivoli che permettono ai visitatori di scendere 20 metri di altezza dal loggiato del secondo piano al cortile e uno speciale spazio laboratoriale nella Strozzina, collegato alla facciata del Palazzo.
I risultati rivelano 3 importanti fattori che sono emersi dall’interazione tra Uomo e Piante.
Fotosintesi
La fotosintesi di tutte le piante di fagiolo è stato influenzato dalla discesa dallo scivolo:
– Tutte le piante di fagiolo che hanno effettuato la discesa dallo scivolo, con o senza la presenza dell’uomo, presentano un livello fotosintetico alterato rispetto alle piante cosiddette “di controllo” ovvero quegli esemplari che sono stati lasciati in laboratorio in un ambiente e in condizioni ottimali per la loro crescita.
– Le piante di fagiolo che hanno effettuato la discesa dallo scivolo con la presenza dell’uomo presentano la più bassa fotosintesi rispetto a quelle che hanno fatto l’esperienza in solitaria.
Da sinistra: Stefano Mancuso, Arturo Galansino, Carsten Höller. Foto di Alessandro Moggi
Emissione di composti volatili
Durante l’esperimento è stata registrata la produzione di composti volatili da parte delle piante di fagiolo, la cui concentrazione dipende ancora una volta, dal tipo di esperienza effettuata. In piante che hanno effettuato la discesa dallo scivolo in assenza dell’uomo si è accertato un aumento significativo dell’emissione di alcuni composti volatili rispetto agli esemplari che hanno effettuato la discesa con la presenza dell’uomo. In quest’ultimi, al contrario, si è misurata una notevole riduzione della concentrazione degli stessi composti.
Foto di Alessandro Moggi
Gioia o paura: i glicini sulla facciata di palazzo strozzi
È interessante rilevare che ognuna delle 8 piante di glicine posizionate sulla facciata di Palazzo Strozzi, la cui crescita è influenzata dalla paura o dalla gioia dei visitatori presenti nelle due speciali sale cinematografiche allestite negli spazi della Strozzina, ha effettuato una “scelta”. La direzione dominante del glicine è stata quella della gioia che è stata scelta da 5 piante mentre le rimanenti 3 hanno scelto la direzione della paura.
“In conclusione” ha affermato Mancuso: “Sembra confermato l’effetto che la presenza dell’uomo ha sulle piante…la riduzione della fotosintesi e dell’emissione di composti volatili in presenza dell’uomo sono statisticamente significative e denotano il fatto che le piante ci percepiscano.” “Siamo soddisfatti dello straordinario successo di questa prima “mostra-esperimento” afferma Arturo Galansino, Direttore Generale della Fondazione Palazzo Strozzi e curatore del progetto “I risultati paiono confermare l’interazione tra uomini e piante, proprio nella direzione del messaggio ecologico di comunione tra mondo umano e mondo vegetale che The Florence Experiment voleva portare”.
La mostra “Nascita di una Nazione. Tra Guttuso, Fontana e Schifano” (11 marzo-22 luglio 2018) ha rappresentato la cornice ideale per lo sviluppo di un progetto di collaborazione tra il corso di Storia dell’Arte Contemporanea, tenuto dalla professoressa Alessandra Scappini (SAGAS, Università di Firenze), e la Fondazione Palazzo Strozzi. Gli studenti del corso hanno lavorato alla stesura di un saggio critico dedicato a una delle quattro aree tematiche di discussione emerse durante la visita alla mostra e approfondite in aula attraverso una bibliografia di riferimento:
arte e sistema (politico, socio – economico, culturale);
opera come creazione e operazione per il coinvolgimento del pubblico;
la linea analitica dell’arte contemporanea come indagine di carattere metalinguistico;
l’ironia come atteggiamento proprio dell’artista.
Gli elaborati sono stati valutati per l’originalità dalla proposta, la qualità della scrittura e l’approfondimento della ricerca. Pubblichiamo con grande piacere sul nostro blog i saggi di Anna De Bernardis, Marta Matassoni, Sabrina Piergiovanni ed Emma Rossi.
di Marta Matassoni
Sintesi
All’inizio del Novecento i filosofi russi Sergej N. Bulgakov e Nikolaj Berdjaev guardarono con preoccupazione agli esiti di futurismo e cubismo, avvertendo nella loro volontà di rinnovamento una grave crisi dell’arte e dell’umanità intera. Qualche anno più tardi il filosofo spagnolo Ortega y Gasset individuò una possibilità di salvezza nel “destino ironico” dell’arte, che si sarebbe attuato pienamente nelle ricerche dell’italiano Piero Manzoni nel corso degli anni Sessanta. Fortemente debitore delle sperimentazioni duchampiane Manzoni si fece promotore di un’operazione dadaista concettuale d’impronta esplicitamente ironica, modificando radicalmente la natura dell’opera d’arte e instaurando un nuovo dialogo con lo spettatore.
Parole chiave: Ortega y Gasset, Piero Manzoni, ironia, Dada, arte concettuale
Il destino ironico dell’arte e il “fattore Duchamp”
Tra 1915 e 1918 i filosofi russi Sergej N. Bulgakov (1871-1944) e Nikolaj Berdjaev (1874-1948), poco dopo aver visitato la mostra di Picasso presso la galleria Ščukin di Mosca, rilevarono con grande sconcerto la presenza di una grave frattura nel rapporto fra arte e vita, “fra la creatività e l’essere” (Berdjaev, 2012: 41), anticipando una questione che sarebbe stata centrale anche nei decenni successivi e di cui tutt’oggi si discute1.
Qualche anno più tardi il filosofo spagnolo Ortega y Gasset (1883-1955) ne La disumanizzazione dell’arte (1925) tentava di analizzare quel cambiamento senza precedenti innescato all’interno del panorama artistico novecentesco dalle avanguardie storiche, che avrebbero condizionato in maniera irreversibile anche tutte le manifestazioni artistiche a venire, individuando una possibilità di salvezza proprio nel destino ironico dell’arte. Tra le diverse tendenze proprie di questa “arte nuova” il filosofo individuava, infatti, oltre all’inconfutabile presenza di una nuova sensibilità estetica, un’essenziale ironia di fondo (Ortega y Gasset, 2016: 17) e descriveva le nuove correnti artistiche come “un fenomeno d’indole equivoca […] perché equivoci sono tutti i grandi fatti di questi anni in corso” (2016: 44). Quel carattere serio e ieratico dell’arte del passato, che talvolta “pretendeva perfino di condurre a salvamento la sorte umana” (2016: 45), non sembrava più essere una componente propria dell’arte dell’ultimo secolo. Proprio questa ironia, notava Ortega, è ciò che sconcerta maggiormente la sensibilità delle persone serie, che si rifiutano di riconoscere nella farsa l’essenziale vocazione dell’arte2. Questa, infatti, in quanto rappresentazione, risulta necessariamente orientata alla ricerca della finzione, finalità che può scaturire soltanto da una “condizione di spirito gioviale” (2016: 45).
Ortega, del resto, non sarebbe stato il primo a evidenziare l’intento ironico dell’arte, dal momento che, come ricorda lui stesso, all’inizio del XIX secolo un gruppo di romantici tedeschi guidati dai fratelli Schlegel aveva dichiarato l’Ironia la più alta categoria estetica ed eletto il poeta moderno come l’ironista per eccellenza (Givone, 2011: 64). Quest’ultimo, infatti, dopo aver sottoposto a un’attenta critica i materiali della tradizione, li trasforma radicalmente, conducendo l’arte verso “l’indistinzione fra apparenza e verità, fra il serio e lo scherzoso” (2011: 65). Nel suo tentativo di creazione di un orizzonte irreale l’arte non si libera del suo concetto di verità, ma questa viene semplicemente trasferita in un altrove, “cui si risale non già perché sia possibile raggiungerla, ma perché il risalimento è compito fine a se stesso” (2011: 64).
Prima ancora che Ortega pubblicasse La disumanizzazione dell’arte, la riflessione sull’ironia in relazione alle diverse manifestazioni artistiche, venne affrontata anche da Luigi Pirandello, che ne individuò una certa somiglianza con il concetto di “umorismo” (Pirandello, 1994: 10), strumento essenziale per cogliere le più profonde contraddizioni della realtà, da lui teorizzato nell’omonimo saggio pubblicato nel 1908 (Ardizzola, 2014: 9). Pirandello descrive l’umorismo come “sentimento del contrario”, e cioè come un complesso stato d’animo che consente all’artista di vedere un aspetto della realtà, avvertendone al tempo stesso il suo contrario (Pirandello, 1994: 116). L’umorismo, che consiste dunque in un “fenomeno di sdoppiamento” (1994: 175), non esclude la comicità, ma questa ne rappresenta solo il momento iniziale per lasciare spazio a una riflessione più profonda.
L’analisi di Pirandello sull’umorismo, sebbene trovi maggiori affinità con la pittura espressionista più che con le successive manifestazioni artistiche, come non manca di sottolineare Paola Ardizzola (2014: 8), è comunque sintomatica dell’affermarsi della tendenza, rilevabile già nelle opere del belga James Ensor3 (Fig.1), a servirsi dell’ironia come strumento per aggredire la società del proprio tempo. Il fine era quello di rivelarne superstizioni, vizi e ipocrisie, esortando lo spettatore a modificare la sua idea di arte.
Fig.1: James Ensor, Autoritratto con maschere, 1899, olio su tela, 117×80 cm, Aichi, Ménard Art Museum
Se i pittori espressionisti credevano ancora nell’arte, al contrario, i dadaisti operarono un rovesciamento anche del tradizionale statuto di opera d’arte. La polemica contro la società aveva orientato molte delle opere espressioniste, ma i dadaisti assunsero una posizione ancor più radicale, opponendosi a tutto ciò che era espressione di quella società, comprese le sue manifestazioni artistiche (De Micheli, 2018: 156). Massimo protagonista dell’arte di Dada fu naturalmente Marcel Duchamp, che contravvenne a tutto quello che fino a quel momento era stato elemento portante e imprescindibile dell’opera d’arte e, attraverso una serie di operazioni fortemente connesse al caso e impregnate di ironia, propose come oggetti esteticamente rilevanti comunissimi prodotti pre-confezionati, seriali, anonimi (Barilli, 2005: 189).
Come evidenzia Maurizio Calvesi (2008: 323), fondamentale era la decontestualizzazione dell’oggetto prelevato e la sua conseguente destinazione a una funzione inaspettata e inconsueta, che generava nell’osservatore un effetto di spaesamento (Fig. 2).
Fig. 2: Marcel Duchamp, Fountain, 1917, replica 1964, porcellana, 36x48x61, Londra Tate Modern
Il “fattore Duchamp”, come lo chiama Alessandro Del Puppo (2013: 40-41), fu indispensabile per l’affermarsi di un’arte che si sarebbe rifugiata sempre più nell’anestetico: Duchamp, attraverso le tecniche del comico e dell’ironia, dimostrò come, anziché rincorrere forme ingannevoli e illusorie, la realtà intera, nei suoi aspetti più concreti e banali, poteva essere riconosciuta come artistica. Tra lo spettatore e l’oggetto iniziò così a stabilirsi un nuovo e inconsueto rapporto, impostato sulla componente dell’ironia, essenziale nella logica duchampiana, ma anche in molte delle successive correnti artistiche.
Ironia e provocazione nell’opera di Piero Manzoni
Negli anni Sessanta del Novecento con le sue scatolette di Merda d’artista (Fig. 3) l’italiano Piero Manzoni (1933-1963), con un atto ancora più estremo rispetto agli scandali suscitati dalle opere duchampiane (Argan 1970: 656), si era fatto promotore di un’operazione dadaista concettuale d’impronta esplicitamente ironica. Secondo una paradossale messa in discussione dello statuto di opera d’arte, così come era avvenuto per Fountain (1917), l’artista aveva riempito novanta scatolette dei suoi escrementi, ciascuna dal contenuto netto di trenta grammi, tutte conservate al naturale e rigorosamente “made in Italy” (Celant, 2014: 143). In questa ironica operazione di inscatolamento Manzoni aveva trasformato la materia più bassa e umile che esiste, vendendola a peso d’oro e conferendole la dignità di opera d’arte. Qualora si volesse verificare l’effettivo contenuto della scatoletta, si finirebbe col distruggere irrimediabilmente l’opera, annullandone il valore (Criqui, 1992: 22).
Rifacendosi alle pratiche di rovesciamento e spaesamento proprie dei ready-made, Manzoni invitava l’osservatore ad assumere una prospettiva differente; se nella frustrazione della visibilità dell’opera, chiusa nella scatoletta, vi è un’adesione a una ricerca di tipo mentalistico e di impronta concettuale, si nota parallelamente una decisa affermazione del valore supremo del corpo attraverso il coinvolgimento delle stesse funzioni vitali dell’artista, che si poneva in anticipo della Body Art (Barilli, 2005: 293).
In questa irriverente operazione si rileva, inoltre, una critica verso il feticismo e la brama di possesso di alcuni collezionisti d’arte (Celant, 2014: 143): ad essi l’artista, provocatoriamente, aveva dichiarato di voler offrire qualcosa di veramente intimo e personale come i suoi stessi escrementi (Dutton, 2008: 202).
Nell’ottica di Manzoni, al di là dell’atto dichiaratamente demistificatorio, il compito dell’artista doveva diventare anche quello di renderci vigili e consapevoli del nostro stesso esistere: non è più necessario articolare alcun messaggio, “c’è solo da essere, c’è solo da vivere” (Criqui, 1992: 24).
Nel luglio del 1960 in occasione della performance condivisa di Consumazione dell’arte (Fig. 4), Manzoni invitava il pubblico a cibarsi di un uovo sodo timbrato con la propria impronta digitale (Celant, 2014: 139); con questo atto, dal carattere fortemente simbolico e provocatorio, intendeva trasmettere la propria creatività e lucidità esistenziale allo spettatore-consumatore, coinvolgendolo attivamente e accentuandone la percezione sensoriale4.
Del medesimo anno sono i Corpi d’aria5 (Fig. 5), “sculture da viaggio” che lo spettatore poteva gonfiare personalmente o acquistare a un prezzo maggiore già gonfiate dall’artista, trasformandosi in tal caso in Fiato d’artista6(Barbero, Pola, 2018: 77).
Alla messa in discussione dello statuto di opera d’arte si accompagna, dunque, anche una divertita e sarcastica riflessione sulla mercificazione dell’arte e sulla volubilità con cui il mercato crea valore: l’artista immette sul mercato qualcosa da lui stesso prodotto, che va a confondersi come bene di consumo insieme a una miriade di altre offerte (Celant, 2014: 144).
Nell’opera di Manzoni, oltre all’esigenza di ridefinire il ruolo dell’artista nella contemporaneità e di fare dell’opera d’arte un dirompente strumento di provocazione, emerge anche un’evidente critica verso la società dei consumi di massa, al cui rassicurante orizzonte visivo avevano aderito pienamente gli artisti della pop art. D’altra parte, il periodo storico in cui Manzoni si trova a operare, corrisponde all’apogeo del neocapitalismo, nonché allo sviluppo delle moderne strategie di marketing e al considerevole aumento del numero di consumatori (Del Puppo, 2013: 43-44). Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta la città di Milano era stata totalmente investita da questo processo di modernizzazione e industrializzazione, che aveva prodotto significative trasformazioni a livello sociale, politico e culturale, con le quali l’arte non aveva potuto fare a meno di misurarsi e interagire (Barbero, Pola 2018: 66).
Manzoni non credeva più in un’arte che fosse rappresentazione mimetica della realtà o espressione dell’interiorità dell’artista ed era estremamente critico verso tutti quei pittori che intervenivano sulla tela con il loro corpo e la loro soggettività (Celant 2014: 132-133). Non potendo più esprimere se stesso attraverso la superficie della tela, come prova la sua serie di Achromes (Fig. 6), in cui la materia si mostra come puro significante, Manzoni era arrivato a far coincidere l’arte con il soggetto stesso, con le sue azioni, i suoi gesti e le tracce del suo esistere (2014: 23).
A Roma nel 1961, in un’operazione tra il serio e lo scherzoso, aveva iniziato a riconoscere le prime persone quali opere d’arte, certificandone lo status con la propria firma e rilasciando persino una ricevuta di autenticità7 (2014: 144-146). Si poteva diventare temporaneamente opera d’arte anche salendo sulla Base Magica, chepoi si trasformerà nello Socle du Monde (Fig. 7), piedistallo rovesciato a sostegno dell’intero pianeta che, come un duchampiano ready-made, viene elevato ad opera d’arte insieme a tutti i suoi abitanti (Galimberti, 2012: 87).
Nell’opera di Manzoni, con i suoi molteplici livelli di lettura e la presenza di una forte componente ironica, sembra emergere proprio ciò che Ortega avvertiva nelle avanguardie storiche e che poi avrebbe contraddistinto molte delle correnti artistiche successive. Se da un lato l’esito dell’operazione umoristica di Manzoni, di chiara derivazione duchampiana, aveva determinato la dissoluzione dell’“aura”8 e della sacralità propria dell’opera d’arte come unicum, dall’altro veniva riaffermata con forza la centralità dell’artista e della sua opera.
Quella di Manzoni non era dunque una sterile provocazione, ma rientrava in una riflessione più profonda, volta a creare un nuovo rapporto con lo spettatore e a stabilire un più saldo nesso tra arte e vita. Pur nella sua brevità, l’esperienza di Piero Manzoni, con la sua straordinaria carica innovativa, si rivelerà fondamentale per comprendere molti dei percorsi intrapresi dagli artisti degli anni Sessanta (Serraller, 1992: 38).
L’ironia come strumento di critica
Il difficile rapporto tra arte e società, che aveva generato un’accesa polemica dopo la prima guerra mondiale, a seguito della seconda s’inasprì a tal punto che la “morte” dell’arte sembrava ormai imminente e ineluttabile (Argan, 1970: 605). Lo choc provocato dalla seconda guerra mondiale ebbe profonde conseguenze sulle ricerche artistiche e il volto dell’arte, sottoposto a una continua metamorfosi, non sarebbe più stato lo stesso (Celant 2014: 105). Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, in Europa e negli Stati Uniti, alcuni artisti, come Piero Manzoni, iniziarono a indagare sulla natura e il senso dell’arte, arrivando a mettere in discussione l’oggetto artistico in quanto tale, non più in grado di trasmettere verità assolute e, come osservava Argan (1970: 608), spesso vittima di un mercato che finiva con lo svilire l’opera, abbassata a una merce qualunque. La volontà di trasgressione e rinnovamento, che si fecero più accese soprattutto in seguito alle contestazioni politiche e alle tensioni sociali del Sessantotto, sarebbe proseguita ancora per tutti gli anni Settanta, arrivando a sottoporre a un’aspra critica persino le stesse istituzioni espositive, che divennero oggetto di un’impietosa parodia9 (Del Puppo, 2013: 98-99). Tuttavia all’interno di quella che nel 1947 Max Horkheimer e Theodor Adorno definirono come “industria culturale”, l’arte poteva ancora avere una funzione essenziale: rivoltandosi contro il suo essere stata ridotta a bene di consumo, l’arte diventa caricatura e negazione di se stessa, “non nel senso di scomparire, togliersi di mezzo, hegelianamente morire […], ma nel senso di tenere aperta la possibilità di uno sguardo controluce sul mondo e di dar voce, paradossalmente, magari ammutolendo, alla ‘vita offesa’” (Givone, 2011: 126). Proprio sfruttando le armi del paradosso e dell’ironia, alcuni artisti tentarono di suscitare un atteggiamento critico nello spettatore, spingendolo a interrogarsi sul proprio modo di percepire e fruire la realtà.
Incredibilmente furono proprio gli artisti a minacciare la “morte” dell’arte che, nella sua tradizionale concezione, era stata fin troppo strumentalizzata e banalizzata (Argan, 1970: 608), eppure l’arte, proprio come aveva profetizzato Ortega (2016: 45), “in questa attitudine di annientare se stessa, continua ad essere arte e, per una miracolosa dialettica, la sua negazione diventa la sua conservazione e il suo trionfo”.
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Note
1 La riflessione sulla “crisi dell’arte” è stata affrontata da Hans Sedlmayr in Perdita del Centro. Le arti figurative del diciannovesimo e ventesimo secolo come sintomo e simbolo di un’epoca (1948) e più recentemente da alcuni critici come Jean Clair. 2 “Ma l’artista ci invita a contemplare un’arte che è uno scherzo […] Invece di ridersi di qualcuno o di qualcosa […] l’arte nuova mette in ridicolo se stessa. E non ci si deve allarmare a sentire queste proposizioni. Mai l’arte ha palesato meglio il suo magico dono come in questa burla di se stessa”. J. Ortega y Gasset , La disumanizzazione dell’arte, Milano, 2016, p. 45 3 James Ensor (1860-1949) dichiarò nei suoi Scritti di essere stato “conquistato dall’ironia”, di cui si servì per deformare la pittura tradizionale, senza ancora trasformarla del tutto. Cfr. M.A. Caws (ed.), Manifesto: a century of -isms, University of Nebraska Press, 2001, p. 263 4 “Anche Manzoni divora l’uovo. Alla ricerca di un’auto-fecondazione […] mangia il suo stesso corpo, l’uovo segnato dal suo pollice. La conseguenza, condivisa dal pubblico, è la consapevolezza di un’unione mistica con l’arte, un’elevazione del soggetto a opera” G. Celant, Su Piero Manzoni, Milano, 2014, p. 140 5 “I Corpi d’aria, quelle sculture pneumatiche che nascono grazie al soffio-pneuma dell’artista, ripropongono il divino insieme all’umano. Pneuma è l’atto di ispirazione divina per il quale si soffia l’anima dentro la materia, che si trasforma così in materia animata vitale” F. C. Seraller, “Dire, essere, vivere”, in G. Celant (a cura di) Piero Manzoni, Electa, Milano, 1992, p. 36 6 Con i Corpi d’aria e la serie dei Fiati vi era anche una ripresa letterale da Duchamp, che nel 1966 in una lunga intervista aveva affermato: “each second, each breath is a work which is inscribed nowhere, which is neither visual nor celebral. It’s a sort of constant euphoria” P. Cabanne, Dialogues with Marcel Duchamp, Cambridge (MA), 1979, p. 72 7 “Su ogni ricevuta e ogni matrice, Manzoni incolla un bollino di colore rosso o giallo, verde o viola. Ogni colore ha un significato specifico: il rosso indica che l’individuo è un’opera d’arte completa e tale rimane sino alla sua morte. Il colore giallo che è valida solo la parte firmata. Con il colore verde si pongono a una condizione e una limitazione al gesto o all’atteggiamento plastico del corpo, per cui si è arte solo in certe posizioni, ad esempio dormendo, parlando, camminando o correndo. Infine il viola ha gli stessi effetti del rosso, solo che è «a pagamento». Tra gli ammessi all’empireo dell’arte: Marcel Broodthaers, Umberto Eco, Emilio Villa e Henk Peeters” Celant, op. cit., 2014, pp. 145-146 8 Walter Benjamin (1892-1940) aveva elaborato il concetto di “aura” dell’opera d’arte nel celebre saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica del 1936, in cui sosteneva che, a causa della sua riproduzione tecnica, l’opera finiva col perdere la sua unicità e il suo carattere auratico, aprendo a un’esperienza del tutto diversa. 9 Nel 1969 l’artista statunitense Robert Barry inviò 4000 biglietti d’invito per tre mostre, che si sarebbero tenute ad Amsterdam, Torino e Los Angeles, con le quali informava i destinatari che durante l’esibizione la galleria sarebbe rimasta chiusa. Ancora più ironico il belga Marcel Broodthaers che istituì nella sua casa studio di Bruxelles un museo personale di arte moderna che, nella sua grottesca organizzazione, doveva rappresentare una parodia delle istituzioni espositive e degli eventi di politica culturale. Sulla critica istituzionale cfr. A. Del Puppo, L’arte contemporanea. Il secondo Novecento, Torino, 2013, pp. 96-99
“Un’Inattesa Fanciullezza”: l’Attico negli Anni di Pascali, 1966 – 1968
La mostra “Nascita di una Nazione. Tra Guttuso, Fontana e Schifano” (11 marzo-22 luglio 2018) ha rappresentato la cornice ideale per lo sviluppo di un progetto di collaborazione tra il corso di Storia dell’Arte Contemporanea, tenuto dalla professoressa Alessandra Scappini (SAGAS, Università di Firenze), e la Fondazione Palazzo Strozzi. Gli studenti del corso hanno lavorato alla stesura di un saggio critico dedicato a una delle quattro aree tematiche di discussione emerse durante la visita alla mostra e approfondite in aula attraverso una bibliografia di riferimento:
arte e sistema (politico, socio – economico, culturale);
opera come creazione e operazione per il coinvolgimento del pubblico;
la linea analitica dell’arte contemporanea come indagine di carattere metalinguistico;
l’ironia come atteggiamento proprio dell’artista.
Gli elaborati sono stati valutati per l’originalità della proposta, la qualità della scrittura e l’approfondimento della ricerca. Pubblichiamo con grande piacere sul nostro blog i saggi di Anna De Bernardis, Marta Matassoni, Sabrina Piergiovanni ed Emma Rossi.
di Emma Rossi
Sintesi
Gli ultimi due anni di vita di Pino Pascali sono profondamente segnati dal rapporto con Fabio Sargentini e con gli artisti che gravitano intorno alla sua galleria, L’Attico. Un aspetto significativo nelle opere di tale periodo è l’ironia, che egli utilizza in base ad una concezione per certi versi affine ma fondamentalmente opposta a quella dell’amico Jannis Kounellis.
Parole chiave: L’Attico, Fabio Sargentini, Pino Pascali, Jannis Kounellis, ironia.
Introduzione
Nel 1966 prende forma lo stretto sodalizio tra Pino Pascali e Fabio Sargentini. Pascali è un giovane artista eclettico, pugliese ma formatosi all’Accademia di Roma, conosciuto nel mondo della pubblicità per i suoi lavori grafici ed anche già noto ai critici per le sue prime mostre presso La Tartaruga di Plinio De Martiis e da Sperone, a Torino. Fabio è figlio del gallerista Bruno Sargentini, proprietario de L’Attico, sta cercando l’indipendenza e l’occasione gli si offre proprio nell’incontro con Pascali: la mostra Pino Pascali Nuove sculture, che inaugura il 29 novembre, è la prima che lui organizza in completa autonomia e segna l’inizio di una nuova stagione in cui L’Attico sarà al centro della scena artistica romana. Fino all’11 settembre del 1968, data della tragica morte dell’artista a causa di un incidente, le mostre proposte sono grandemente influenzate dalla poetica di Pascali. L’altro artista di punta della galleria è in quegli anni Jannis Kounellis, di origine greca, giunto anch’egli a Roma nel 1956 e noto per alcuni lavori esposti a La Tartaruga. I due lavorano, per e con Sargentini, su temi comuni e si influenzano a vicenda nella ricerca.
Ricorrono, nelle opere presentate a L’Attico nel biennio 1966-1968, la tematica del gioco e i riferimenti al mondo dell’infanzia. Si evidenzia da parte degli artisti un atteggiamento interpretabile su più piani: se entrambi compiono operazioni “ironiche” in senso corrente, cioè si prendono gioco di determinate convenzioni, ad un livello più profondo si può operare una distinzione tra Pascali, che esercita l’ironia nel suo senso etimologico di “finzione” 1 e Kounellis, che si pone lo scopo contrario, cioè quello di svelare, per frammenti, la realtà così com’è.
Il mare in una stanza
La mostra Pino Pascali Nuove Sculture del 1966 si articola in due fasi espositive. Nella prima vengono presentate Decapitazione delle giraffe, Decapitazione del rinoceronte, Il grande rettile, Decapitazione della scultura, Ricostruzione del dinosauro. Nella seconda Il mare, La scogliera, Barca che affonda, Due balene.
Entrambi i gruppi sono formati da opere di grandi dimensioni, che riplasmano lo spazio della galleria. Protagonisti sono gli animali ed alcuni elementi della natura: Pascali proietta il visitatore in un mondo infantile e primordiale, di creature primitive come il dinosauro o tuttora esistenti, riportate alla forma più semplice possibile. L’operazione presenta diversi aspetti ironici: la Decapitazione delle giraffe fa il verso ai trofei di caccia e si prende gioco della “borghesia assassina, che ai propri muri appende parti mutile di animali che furono vivi” (Barbero e Pola, 2010: 33), la Ricostruzione del dinosauro invece allude sarcasticamente agli allestimenti dei musei paleontologici. In Decapitazione della scultura l’ironia è a doppio taglio: “il gioco è, da una parte, dare una forma vivente alla scultura, come se essa possedesse un’animalità plastica fondamentale, dall’altra decapitare questa forma plastica e astratta come se si trattasse di un animale” (Tonelli, 2010: 73).E poi Il mare (fig. 1), l’opera che più stupisce i visitatori: 24 pannelli di onde colpite in un punto da un fulmine nero dalla forma serpentina di warburghiana memoria, con le Due balene che emergono con la coda dalla parete, come sospese al di sopra dell’acqua. L’opera occupa completamente una sala della galleria, impedendo al visitatore di camminarvi ed innescando una relazione inedita con lo spazio espositivo: “Pascali mi ha suggerito con Il Mare un altro modello di spazio – dichiarerà in seguito Sargentini –e da allora sono stato fissato con lo spazio da interpretare, non solo da parte degli artisti ma anche da parte mia” (Barbero e Pola, 2010: 195).
L’artista definisce queste sue opere “finte sculture” in quanto la tecnica non assomiglia a quella della scultura vera e propria: la struttura interna è costituita da un telaio in legno e il rivestimento è di tela. Afferma infatti: “io penso di non essere uno scultore, ho questa immagine verso me stesso: è una cosa che potrebbe essere anche grave, ma chissà se è grave, per me anche quello è divertente”. In occasione dell’esposizione della serie delle Armi alla Galleria Sperone di Torino Pascali aveva scritto al gallerista: “penso che il problema è di ripulire l’immagine da qualsiasi attributo e simbolo ricollocandolo nella sua presenza oggettuale”(Tonelli, 2010: 49). L’intento di presentare un’immagine in purezza, al suo stato primordiale, è presente anche nella prima mostra a L’Attico: se le Armi avevano a primo impatto un’apparenza di veridicità, nelle “finte sculture” la finzione è ancor più evidente; “è la finzione – dice in un’intervista – che determina automaticamente l’identificazione con una certa immagine, una certa parola sul vocabolario, cannone, scultura, Brancusi” (Lonzi, 2010: 271).
Fig. 1: Pino Pascali, Il mare, 1966, Galleria L’Attico, tela centinata dipinta su struttura di legno
Il giardino – I giuochi
A partire dal mese di marzo del 1967 L’Attico ospita una mostra personale di Kounellis. Il titolo è Il giardino – I giuochi e le opere sono di varia natura. Rose di tessuto sono applicate alle pareti con bottoni automatici, alcune gabbie contengono uccelli vivi e un ambiente specchiante prevede la presenza dell’artista stesso seduto al centro di binari giocattolo sui quali transita un trenino. Il riferimento, dichiarato anche dal titolo, è al gioco, ma in un’accezione diversa da quella intesa da Pascali: Kounellis presenta sì alcuni elementi legati all’infanzia, ma li inserisce in una dimensione altra “nella quale l’oggetto e la materia – inerte o vitale – sono veicolo di simbologie e allusività primordiali, non futuribili” (Barbero e Pola, 2010: 45). La scelta di inserire degli animali vivi sarà stata forse anche discussa con l’amico Pascali, che in un’intervista spiegava: “È come la storia di prendere in mano un uccello che prima volava, un passero, una rondine…veramente, mi trovo a contatto con un essere che non fa parte dei calcoli, capisci, esisteva già e ha la mia stessa presenza, mia stessa carica di vita, mia stessa natura.” (Lonzi, 2010:15). In Kounellis manca, tuttavia, il distacco ironico pascaliano: l’animale non è il soggetto dell’opera ma è l’opera, gli uccelli invadono lo spazio della galleria con la loro presenza rumorosa, sfidando tutte le convenzioni del sistema dell’arte. Nelle opere dell’artista greco è presente una carica di contestazione sarcastica che le rende quasi aggressive nei confronti dell’osservatore. “I fiori erano quasi una cosa decorativa – dirà – con le gabbie volevo invece disegnare una cornice che con il passare del tempo sporcasse a terra. Così nel carbone c’è una cattiveria nel voler sporcare sotto, è lo stacco tra la struttura e la sensibilità vitale.” (Celant, 1983: 46).
A novembre dello stesso anno, Sargentini presenta una seconda mostra di Kounellis, nella quale vengono esposte le opere Cactus, Pappagallo, Acquario e Cotoniera. Ancora una volta lo spazio ospita creature viventi e a chi vorrebbe leggere le opere secondo criteri puramente estetici l’artista oppone la presenza fisica e reale dell’animale: “una cosa assurda come è legato il pensiero a certi ragionamenti proprio condizionanti, perché uno, così, non riesce a vedere nemmeno che lì c’è un pappagallo, che non è un accostamento di colori, perché il pappagallo è il pappagallo, no?” (Lonzi, 2010: 157). Nel catalogo viene pubblicata la trascrizione di un bizzarro dialogo tra alcuni bambini in visita alla mostra e il pappagallo, una conversazione senza regole e alla pari perché i bambini non sono ancora condizionati dalle convenzioni sociali. Infatti, come afferma Calvesi, “le but ultime de Kounellis semble être l’élaboration d’un espace où, en y entrant, l’homme ne se sentirait plus supérieur à la bête ni même au charbon, mais plutôt une partie intégrante d’un monde libre et sans hiérarchies” (Calvesi, 1969: 36).
Fuoco Immagine Acqua Terra
Pochi mesi dopo Sargentini organizza una mostra collettiva che riunisce molti giovani artisti, gran parte dei quali confluirà nel movimento dell’Arte Povera. Fuoco Immagine Acqua Terra, che inaugura l’8 giugno 1967, presenta i lavori di Bignardi, Schifano, Ceroli, Gilardi, Pistoletto, Kounellis e Pascali, riassumendo “diverse tipologie linguistiche ed operative attorno al dialogo tra la dimensione organica e primordiale degli elementi vitali e la propositività di una nuova immagine” (Barbero e Pola, 2010: 21).
Gli elementi naturali sono in primo piano; c’è chi, come Gilardi, lavora ad una riproduzione della natura, e chi la rende parte dell’opera: Kounellis, nel suo Senza Titolo (fig. 2) fa emergere una vera e propria fiamma da un fiore metallico; “il più sottile degli elementi – commenta Boatto nel catalogo – esercita il suo aereo incantamento, celebra la liturgia del fuoco” (Barbero e Pola, 2010: 65). Le opere di Pascali rivelano nuovamente un atteggiamento ironico: le sue Pozzanghere e i Metri cubi di terra contengono da un lato la presenza della natura, degli elementi primari della terra e dell’acqua, dall’altro un equivoco: i metri cubi non sono realmente pieni di terra, hanno una struttura cava ed un rivestimento sottile di terra. “La terra ricopre il cubo di legno, è l’idea della terra ma non è terra” (Bonito Oliva, 2004: 63) commenta Kounellis, sottolineando quell’aspetto di simulazione che è proprio di Pascali e distante invece dalla sua visione. Kounellis non imita la natura, ma mira a svelarne alcuni frammenti, “il suo fuoco – afferma Calvesi – prima che un elemento visivo, è quasi un simbolo, un fulcro, un mitico ombelico di realtà”(Barbero e Pola, 2010: 58).
Fig. 2: Jannis Kounellis, S. T., 1967, Galleria L’Attico, ferro, becco con collettore, tubo di gomma, bombola a gas. Foto Claudio Abate. Giovanni Kounellis by SIAE 2018.
Ricostruzioni della natura
Il 1968 è per Pascali l’anno del massimo successo: dopo aver realizzato varie mostre personali e collettive 2 torna da Sargentini per una nuova esposizione in due fasi e viene chiamato a presentare alcune opere alla Biennale di Venezia. A L’Attico espone Ricostruzioni della natura presentando inizialmente i Bachi da setola e altri lavori in corso e, in un secondo momento, opere come Liane, Ponte, Cesto, Cavalletto, Tela di Penelope.
I Bachi sono creature sovradimensionate formate da spazzole di plastica colorata e sono accompagnati da alcuni bozzoli, posizionati negli angoli che incrementano la leggibilità del gioco di parole. Rappresentano, secondo Fagiolo Dell’Arco, “il lavoro più eloquente e svagato e forse meno profondo, ma chiariscono al massimo il suo metodo: la metamorfosi, un detto-fatto tra immagine e forma” (D’Elia, 1983: 26), sono l’immagine di un’immagine mentale, la concretizzazione di un cortocircuito linguistico – magari pensato inizialmente come battuta 3 – che suscita ironia nell’osservatore. “I suoi giochi di parole – osserva l’amico Vittorio Brandi Rubiu – non sono mai calembours fini a se stessi, ma innescano una reazione a catena” (Brandi Rubiu, 2013: 8).
Il contrasto tra elementi naturali e materiali industriali emerge anche nella seconda fase della mostra: le opere rappresentano strumenti e manufatti primitivi, ma fingono la materialità della corda con pagliette di ferro. Le Liane, il Ponte, il Cavalletto sembrano ricostruire un tempo lontano, un’era preistorica ideale, in cui ancora non esisteva il concetto di arte. I giochi di parole si accavallano: la lana d’acciaio forma una liana, il ponte levatoio ha quasi la struttura di un lavatoio. La Tela di Penelope e l’Arco di Ulisse alludono al mondo della mitologia, presente nel suo immaginario 4, secondo un’evocazione che si serve sempre dell’ironia.
All’interno della mostra Pascali transita spesso, compiendo quasi delle performance involontarie mentre, vestito di rafia come un “selvaggio”, dialoga in dialetto con la sua scimmia Cita; le sue azioni sono state lette in chiave tribale e sciamanica (Stocchi, 2017) ma potrebbero forse essere viste come una modalità di vivere le opere e l’ambiente della galleria, Pascali era d’altronde “più vicino a questa realtà perché si era astratto da essa come pietrificazione storica per conquistarla come la propria realtà individuale, biologica, naturale… realizzazione della fantasia” (Kounellis, 1993: 36).
A partire dal mese di giugno alcune opere di Pascali sono presenti alla XXXIV Biennale di Venezia; si tratta di lavori legati alla cultura primitivista e alla sua passione per l’arte negra, alcuni dei quali già esposti da Sargentini: Pelo, Contropelo, Cesto, Stuoia, Le penne d’Esopo, Archetipo, Solitario e Liane, Vedova blu. I giochi di parole e i rimandi ironici sono sempre presenti nelle opere che formano “un’isola di fantasia in mezzo alla contestazione studentesca che chiedeva all’arte un impegno politico al quale Pascali rispose con libero gioco” (Lodolo, 2012: 181). La contestazione e le lotte non sono, secondo Pascali, cosa da artisti; a differenza di Kounellis si tiene a distanza dal dibattito politico, mantenendo intatto il candore delle sue opere.
L’Attico dopo Pascali
Pascali trascorre in vacanza l’estate del 1968, l’ultima della sua vita; il 29 agosto, appena tornato a Roma, ha un incidente motociclistico che lo porta alla morte pochi giorni dopo.
Fabio Sargentini, sconvolto dal dolore per la perdita dell’amico, continua tuttavia a cercare il nuovo spazio espositivo che stavano immaginando insieme. Nel gennaio del 1969 Kounellis è il primo a misurarsi con le stanze della nuova sede de L’Attico in via Beccaria che è, ironia della sorte, una sorta di garage al piano interrato. L’artista dipinge per Sargentini anche la saracinesca di entrata (fig. 3), che diventa allo stesso tempo porta ed insegna. La mostra di Kounellis si intitola 12 cavalli vivi e le opere esposte sono realmente dodici cavalli: egli porta all’estremo l’operazione già in nuce ne Il giardino – I giuochi e in Pappagallo, invadendo lo spazio espositivo con dei frammenti di realtà vera; il confine tra arte e vita è annullato. La carica contestataria è fortissima: “quando le strutture, come la galleria, invadono troppo il mio mondo, ne mostro la profondità e tiro l’arco in modo che per loro è impossibile entrare, se entrano ci lasciano la pelle” dichiara Kounellis (Celant, 1983: 62). I cavalli con la loro presenza reale sconvolgono lo spazio neutrale della galleria, annientano la possibilità di una visione estetica e di una interpretazione. Il punto di arrivo di Kounellis è radicale e la sua posizione rispetto all’ironia è diametralmente opposta a quella di Pascali. Pascali aveva mantenuto l’atteggiamento del bambino “che copia il padre e si mette la pistola, perché il padre porta la pistola, e si mette la divisa, perché il padre porta la divisa” ma nel gioco del copiare crea una simulazione, una finzione diversa dalla realtà: “il bambino si mette una mazza al posto della pistola e si mette una giacca di carta oppure un cappello di cartone”. La sua operazione artistica aveva sempre mantenuto il carattere di finzione: “Copiare il padre, in fondo, potrebbe essere delle volte come, per me, fare dei cavalli. Io copio un cavallo: siccome non posso mettergli la pelle lucida col sudore, con le mosche che girano e con la rotondità dei muscoli che si muovono continuamente, io col materiale più semplice da usare per me metto la tela su delle costole di legno” (Lonzi, 2010: 266-267).
Pochi mesi prima sia Kounellis che Pascali avevano partecipato, insieme a Sargentini e all’artista Eliseo Mattiaci, alle riprese di SKMP2 di Luca Patella. Pascali aveva scelto di muoversi vicino e dentro il mare – l’elemento da cui proveniva e che tanto aveva caratterizzato i suoi lavori – e nell’ultima sua scena di baciare la testa di una scultura classica (elemento che comparirà anche in tante opere di Kounellis). Il bacio tra l’artista e la statua in mezzo al mare è stato visto poi, a causa delle tristi circostanze, come un addio alla Scultura, nella consueta modalità di “dissacrazione non ideologica”, “gioco”, “libertà incondizionata e priva di obiettivi utopistici” (Tonelli, 2010: 27), segno di una fiducia nell’arte che salva l’uomo “dalla serietà della vita” e suscita in lui “un’inattesa fanciullezza” (Ortega y Gasset, 1998: 89).
Fig. 3: Jannis Kounellis, Saracinesca del garage della Galleria L’Attico, via C. Beccaria 22, Roma, 1968, acciaio dipinto a olio. Foto Sario Manicone Roma, Giovanni Kounellis, by SIAE 2018.
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Note
1 Si fa riferimento al significato originale del termine, derivante dal greco εἰρωνεία.
2 Tra le tante mostre collettive, italiane e internazionali, alle quali Pascali partecipa tra 1967 e 1968 si ricordano Arte povera – Im spazio curata da Germano Celant alla Galleria La Bertesca di Genova, e Lo spazio dell’immagine che si tiene a Palazzo Trinci a Foligno. Le maggiori esposizioni personali si tengono nel 1967 alla Galerie Thelen di Essen, alla Galerie Ars Intermedia di Colonia, da Iolas sia a Milano che a Parigi (Stocchi, 2017: 111-133).
3 Molti amici di Pascali ricordano le sue battute ed i suoi ricorrenti scherzi (Lodolo, 2012).
4 Pascali, in gioventù, aveva frequentato il liceo classico a Bari (Lodolo, 2012: 18-19).