Il non visibile suscita da sempre un profondo interesse. Non più del visibile, questo non lo si può affermare. Ma lo suscita in forma affatto differente, lasciando intravvedere l’idea o fors’anche la speranza che, in quanto non visibile, possa essere più rivelatore e illuminante dell’essere.
Tuttavia, il visibile, anche se tale, non è detto che… lo si veda. O meglio. Lo sguardo che coglie il visibile è un momento di un tutto, una sorta di percezione “fermo immagine”, poiché la sola funzione visiva, non connessa a una struttura complessa sentimentale, ideativa e simbolica, non è in grado di dirci nulla di più di ciò che vediamo. Quello che vediamo non è poco, certo. Ma vediamo ciò che è nel suo mostrarsi. Nel venire a noi.
La strutturazione linguistica ci consente di identificare quello che vediamo attraverso il nome. Le parole e le cose. O più precisamente L’Ordre des choses, “L’ordine delle cose” di cui ci parla Foucault, dove la rappresentazione della cosa è sempre il suo essere ciò che è. Ma la capacità di rappresentare laldiladelladiqua, scritto rigorosamente tutto attaccato, come oramai propongo da tempo, e scandendo la parola con un unico respiro, ci consente anche di cogliere il non visibile in quanto parte integrante dell’universo tutto.
La psicoanalisi, la filosofia e prima ancora la produzione artistica, ci hanno insegnato che il non visibile produce il suo effetto attraverso il visibile. Spesso in forma eclatante, fantastica, violenta e come tale disarmante. Come nell’arte. Altre volte in modo più silente, ma non meno incisivo, come nei sogni notturni, quella fantastica produzione onirica che ci avvicina al mondo degli Dei e alla stessa realizzazione artistica. O nei lapsus. Ancora di più, nei sintomi. Il sintomo quale emergenza dell’essere è un venire alla luce e rappresenta la punta di un iceberg che fuoriesce ma nello stesso tempo si rivela celandosi nella sua forza significante.
Il non visibile della psicoanalisi esalta e qualifica il visibile, lo eleva sottraendolo alla “funzione visiva” tout court, al factum brutum. Lo sottrae al qui ed ora. Alla letteralità. Alla pochezza strumentale della reificazione, consegnandolo alla magica forza del simbolico. Eccolo laldiladelladiqua! Scritto rigorosamente tutto attaccato, che consente l’emergere di un sapere che è una sorta di “logosantilogos”. Sempre rigorosamente tutto attaccato. Si, perché “neltuttoattaccato” l’effetto scenico, fonico, ideativo impatta e offre un sussulto emotivo non indifferente. Offre l’idea. Offre la cosa non cosificata.

Nell’arte assistiamo alla potenza trasformativa e prorompente del simbolico che accompagna il non visibile in un percorso che gli consente di essere ciò che è. E lo fa esaltando il visibile. Una sorta di metafisica della forma. Il non visibile non è infatti ciò che non si vede. É ciò che, pur vedendosi, non si mostra. Il non mostrarsi, monstrum, è il celarsi che va portato alla luce.
Arte e psicoanalisi che spesso si intrecciano portano alla luce connettendo attraverso il simbolico il particolare all’universale. Nella psicoanalisi il sintomo è quel particolare di un universale, come la punta dell’iceberg che si diceva. Nell’arte è la rappresentazione estetica dell’essere, nelle sue declinazioni. Siamo al cospetto metaforicamente della mitica trasmutazione del piombo in oro. L’oro, il non visibile, emerge. Si mostra. Viene alla luce. Nella potenza trasformativa e disvelativa dell’alchimia il simbolico trova una sorta di apoteosi e irrompe.
L’intensità risolutiva e medianica della psicoanalisi eleva a concetto ciò che non si mostra ma che esiste, e questo passaggio affonda le proprie radici nel mondo pulsionale e sensitivo, nel vortice delle passioni dell’anima e del corpo. Attraverso un atto di comprensione intuitiva e rapiti da un sentimento fondativo di noi stessi ci traghettiamo come Caronte nell’aldiladelladiqua.
Il simbolico non va confuso con l’etereo o con l’indefinito. Come si è detto, il non visibile che si vede ma non si mostra, eleva il visibile sottraendolo alla fenomenica presenza. Il non visibile, il simbolico, il particolare che dice di sé dell’universalità dell’essere, che lo sottende, è una sorta di formula alchemica che trasmuta il piombo in oro. Il corpo è alchimia. La vita è alchimia. Per Freud l’Io corpo con il quale veniamo al mondo e sentiamo il mondo e attraverso il quale siamo nel mondo, nel suo essere ciò che è, è anche altro da sé. Visibile e non visibile nel corpo si fondono. Non vi è necessità di precisare che oltre al corpo vi è un’anima. Il corpo è anima, come l’anima è corpo. Nessuna giustapposizione, ma appartenenza.
E così la potenza della psicoanalisi, come la potenza dell’arte è quella di utilizzare ancora oggi e per sempre la scrittura geroglifica quale strumento di comprensione dell’essere. Segni potenti scolpiti nellanimacorpo. Azioni, scene di quotidianità, di guerra, di morte, di natura, d’amore, figure che descrivono attraverso un universo simbolico l’esistente nella sua plastica verità. Un sogno, un sintomo, una tela, una scultura da guardare e interpretare come un antico muro egizio nel quale si consegna un sistema di scrittura del visibile e del non visibile, che eleva il visibile a forma dell’essere informandolo di sé.

Il simbolico è potente. Sovverte l’ordine costituito della ragion d’essere del Logos, trasformandola nell’essere che trova ragione. Facendo emergere anche il suo lato oscuro. Oscurato. Oscurante. Nulla di più trasgressivo. Il ritrovamento del senso passando attraverso gli antichi geroglifici dellanimacorpo, dellaldiladelladiqua.
Il ritrovamento del senso attraverso il simbolico è fortemente rivoluzionario e mostra l’incanto del mondo, fungendo da passaggio tra l’umano e il divino. Tra il visibile e l’invisibile. Il simbolico diventa l’“arma” della rivoluzione che consente di fondare quel Sono Io identitario attraverso il ritrovamento del significato. Il significato non è un preciso contenuto stigmatizzato o ideologicamente orientato. Ma una condizione esistenziale di apertura all’invisibile. Una predisposizione. Una velocità della luce che illumina. Una parola. Un’immagine. Un suono.
L’alchimia trasformativa del simbolico è raccontata egregiamente da Paulo Coelho nel suo libro L’Alchimista, dove si racconta la storia di un giovane pastore in cerca di un tesoro. È la rappresentazione di un viaggio metafora dove il tesoro è l’anima del mondo, la cui scoperta consente di ricongiungersi con sé stessi. Questa alchimia trasformativa del simbolico è un fondamento fondativo dello sviluppo della coscienza creativa dell’esistenza.
Ma vi è anche il contraltare del simbolico che può trasformarsi nel buio dell’anima, nel disincanto prodotto dell’alienazione, dall’essere fuori di sé… dalla perdita di senso, della mortificazione dell’essere e che, come dice Adorno, fa amare la prigione, le inferriate rappresentate dalla finitezza del concreto, scambiato e frainteso come realtà. Il contraltare del simbolico, il suo lato oscuro e oscurante è dato infatti dalla fatticità che annovera tra le sue non doti, per dirla con lo stile di Alice del paese delle meraviglie il dominio, il desiderio di dominare. Il potere, la forza di piegare il mondo e la natura. Di dominare l’altro. E per farlo tutto deve essere ridotto a cosa cosificata. Il primato dell’oggettivazione funzionale celebra il possesso alienato del mondo e dell’altro, nell’imposizione di un Io artefatto, di un Io sono narcisistico, che vorrebbe piegare e possedere l’essere del mondo.
Diablo, un personaggio di un fumetto Marvel, grazie a una forte alleanza con Mefisto, essere demoniaco, diventa immortale. Acquisisce poteri e capacità uniche di creare pozioni alchemiche, invenzioni geniali per mutare gli oggetti in oro, dare anima alla materia, controllare e dominare le menti. Sentimenti di potere, di immortalità di un corpo fuori di sé, estraneo al suo stato naturale, esorcismo della caducità, sono suscitati dall’assenza di una percezione rispettosa della vita che vive e che si realizza e nella quale la materia è percepite e intesa, ancora una volta fraintesa, come mera “cosa” senza… anima. E infatti, uno dei poteri di Diablo è proprio quello di dare anima, animare la materia. Che tracotanza! Animare la materia come se essa già non avesse la propria di anima. Come se l’anima non fosse già sua. Nessun animismo oltre datato, ma riconoscimento dell’altro fuori di sé e del suo diritto di esistenza a prescindere.
Ancora una volta il concetto di anima deve essere letto in forma simbolica, l’unica in grado di dare suggerimenti suggestivi di ciò che, pur non essendo del tutto comprensibile, capiamo. In assenza del simbolico, quale passaggio tra il visibile e l’invisibile, il corpo si perde ed è ridotto a carne, l’animale è merce da macello, la natura è sfruttamento, privata di anima. La vita è una “cosa” e si realizza in un accumulo di “cose”. Tutto è silenzio.

Nelle opere di Tracey Emin si tocca con mano il suo irresistibile e irrefrenabile bisogno di porre in essere questa mancanza, questa riduzione a cosa del corpo, della vita e di urlare al mondo la violenza prodotta dall’imporsi di un visibile reificato, privato della sua essenza metafisica. Del suo non visibile. E in un mondo che riduce tutto a “carne da macello”, espressione che proprio nella sua potenza simbolica irrompe nelle tele dell’artista, si sprofonda in quella solitudine che diviene perdimento. L’amore forse potrebbe ridefinirci. Forse.
Resta che l’assenza del simbolico nello sviluppo dell’individuo, il suo annullamento e la sua mortificazione produce la manipolazione ideativa, affettiva, sessuale, pulsionale e sociale. La sua assenza incita al dominio dell’essere umano sulla natura e sull’altro ridotto a cosa. Lo stesso dominio si rivela essere un impulso presimbolico che produce la cosificazione dell’essere, dove l’oggetto è tale e vissuto nella sua unica funzione reale. Tutto è funzionale e privato del suo rappresentare se stesso e altro da sé. L’assenza di simbolico è il tocco del male. Quel tocco del male rappresentato egregiamente in un movie del 1998, che mette in risalto come il male, inteso come assenza di bene, passi attraverso l’annullamento dell’identità, il possesso dell’altro, del suo corpo ridotto a strumento, a veicolo del non essere. É quella riduzione dell’essere ad un Io asfittico, a un corpo di cui l’altro si appropria.
Credo che non vi sia scultura più potente e in grado di “redimere” il tocco del male della Pietà di Michelangelo. Già la parola pietà apre a un mondo di magia di sentimenti e di sensazioni che portano altrove dall’essere dove sei. Rappresentante di quel potentissimo simbolico che, pur attraversando la morte e la sofferenza, apre alla vita mostrando un corpo inerme abbracciato. Un corpo vivo nel suo non esserlo, perché amato, in grado di dare luce al buio del dolore infinito.
Vi è del resto uno strettissimo rapporto tra il simbolico del mondo, le sue fantastiche creature e la pietas. Lo ripeto. L’amore forse potrebbe ridefinirci. Forse. La possibilità di accedere ad un universo di significati e di significanti, di sentire la vita propria e dell’altro attraverso il non visibile visibilissimo allo sguardo del sentimento dell’essere, consente al simbolico di respirare di vita propria. Tutto ciò ci conduce su un sentiero dell’oltre. Del c’è altro…
Su un sentiero di significazione, di fantasia, di poesia, di arte, di ricerca di senso e del conforto che non è mai abbastanza, e che offre la possibilità di affermare che c’è altro. Che cosa questo sia, poco importa. Le sue declinazioni saranno ciò che saranno. Importante è l’esserci altro. Non c’entra la credenza, la fede, la speranza, ma solo il fatto che c’è altro da qualche parte, dietro l’angolo. E il mondo a Dio piacendo ha sempre un… dietro l’angolo. Pur essendo tondo!
Abbandonate la strada maestra, le grandi strade e prendi i sentieri, diceva Pitagora. Ecco che dunque l’arte, il sogno, la fantasia, la scrittura i colori trasformano i lati oscuri in luce e ti indicano quale sentiero percorrere in compagnia di te stesso incontrando l’Altro. Ciò non significa che il sogno, l’arte o la poesia, il fantasticare, il gioco eliminino il dolore, ma che il dolore, la difficoltà, il pianto, assumono una posizione affatto differente: vengono sottratti al signore del male che tutto reifica e oscura, e consegnati a un mondo di super eroi.
Manuela Barbarossa è psicoanalista. Ha collaborato con la cattedra di Filosofia Morale II dell’Università degli Studi di Milano, con ricerche sul pensiero simbolico in seguito pubblicate. Già docente presso la Scuola Superiore di Formazione di Psicoterapia e Psicosomatica di Cremona, ha fondato PRISMA (l’Accademia di studi filosofici, psicoanalitici, sociali e di teoria critica in memoria del Prof. Luciano Frasconi).
In copertina: Tracey Emin. The Kiss (det.), 2020. Collection by Kenny Schachter © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025