In occasione della mostra Yan Pei-Ming. Pittore di storie abbiamo chiesto ad Andrea Sceresini, giornalista freelance e autore di inchieste e reportage di guerra, di ispirarsi alle riproduzioni di Yan Pei-Ming delle copertine del «TIME» con Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky per descrivere il conflitto tra Russia e Ucraina, partendo dalla sua esperienza diretta sul campo.
Andrea Sceresini è un giornalista freelance e ha seguito il conflitto in Ucraina fin dal 2014 per Rai, Sky, Mediaset, l’Espresso, la tv tedesca Rtl e altre testate. Come reporter ha lavorato anche in Venezuela, in Egitto e in Transnistria. Ha pubblicato, tra gli altri, il libro Ucraina, la guerra che non c’è (Baldini e Castoldi, 2022).
L’articolo è accompagnato dalle foto di Alfredo Bosco, fotoreporter freelance che si occupa del conflitto in Ucraina.
Attenzione: alcune immagini potrebbero turbare i lettori.
I volti di Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky – messi l’uno di fronte all’altro in questi due trittici di Yan Pei-Ming – sono gli emblemi viventi del conflitto che dal 24 febbraio 2022 sta devastando l’Ucraina. Viste oggi, dalla nostra prospettiva, le posizioni di Mosca e quelle di Kiev appaiono assolutamente inconciliabili, proprio come i visi contrapposti dei due presidenti. Eppure, quando nel 2014 si iniziò a combattere nel Donbass, in pochi avrebbero immaginato un epilogo così catastrofico. Fino a pochi mesi prima, il separatismo filorusso nell’est dell’Ucraina era un fenomeno praticamente inesistente (il partito Doneckaja Respublika riusciva a portare in piazza, quando andava bene, una trentina di persone), e lo stesso valeva, dall’altra parte, per l’ultranazionalismo anti-moscovita. Il fatto è che russi e ucraini avevano sempre convissuto in pace: parlavano due lingue praticamente sovrapponibili, avevano la stessa religione e una storia comune che affondava le radici nell’antico impero degli zar.
Quando sono arrivato per la prima volta a Donetsk, nell’ottobre 2014, non era raro che all’interno della stessa famiglia ci fosse chi tifava per Kiev e chi per Mosca. La gente era tendenzialmente molto spaesata, e in tanti ancora si illudevano che tutto quell’affare si sarebbe risolto in tempi brevi e senza troppe conseguenze. Da allora, a colpi di propaganda – e di bombe, e di carri armati – il germe dello sciovinismo più brutale è stato seminato in abbondanza su entrambi i lati del fronte. A detta dei media moscoviti, gli ucraini sono tutti “nazisti”, mentre i telegiornali di Kiev hanno ribattezzato i russi con un termine decisamente più aulico: li chiamano “gli orchi”. In quest’ottica, anche le notizie di cronaca spicciola hanno subito una serie di sostanziali modifiche.
Nel 2014, mentre ero a Donetsk, la città fu colpita dall’esercito ucraino: “I separatisti si bombardano da soli per dar la colpa ai nostri”, scrissero i giornali governativi. Un paio di mesi dopo, quando i russi tirarono sul mercato di Mariupol, i quotidiani del Cremlino titolarono esattamente allo stesso modo: “Gli ucraini si bombardano da soli per dar la colpa ai separatisti”. Il tutto suonava così estraniante da risultare quasi comico, ma la propaganda del resto è sempre stata allergica all’autoironia. Paradossalmente, coloro che meno di tutti digeriscono questo tipo di réclame bellicistica sono proprio quelli che la guerra la vedono più da vicino. Non ho mai conosciuto – salvo rare eccezioni – dei soldati che fossero entusiasti di ammazzare o farsi sparare addosso.
La Russia e l’Ucraina sono due Paesi molto poveri e molto corrotti, dove chiunque abbia qualche capitale da parte non ci pensa due volte a pagare un medico per farsi esentare dalla naja. Il risultato è che nelle trincee ci finiscono spesso i più disgraziati, i quali appena possono gettano a terra il fucile e cercano di tornarsene a casa. Lo scorso anno, sul fronte di Lyman, ha fatto notizia la storia di un intero reparto ucraino che aveva deciso di abbandonare la prima linea e di nascondersi in un bosco. Episodi simili accadono spesso anche sul lato russo: giusto qualche settimana fa ho intervistato un ex ufficiale di San Pietroburgo che pur di farsi rispedire nelle retrovie aveva convinto un suo sottoposto a sparargli un colpo di Kalashnikov nelle gambe.
Foto: Alfredo Bosco
Per capire qualcosa in più sul famigerato esercito di Putin, nell’ottobre 2022 sono volato in Buriazia, nella Siberia più profonda, che è il luogo da cui sono partiti molti dei volontari russi che hanno partecipato alle prime fasi dell’invasione. Non ho trovato villaggi popolati da guerrieri, ma solo tanta povertà e una lunga distesa di fosse fresche nei cimiteri. Ai soldati morti in Ucraina il governo locale corrisponde un risarcimento di 140mila dollari, che per chi vive nelle steppe attorno al lago Baikal è una cifra favolosa: in molti – banalmente – si sono arruolati per questa ragione.
Foto: Alfredo Bosco
Foto: Alfredo Bosco
Un giorno, mentre cercavo testimonianze nei dintorni del capoluogo Ulan-Udė, mi sono imbattuto in un vecchio che raccoglieva patate. Gli ho chiesto cosa pensasse degli ucraini, e lui mi ha risposto la cosa più semplice del mondo: “Cosa devo pensare? Tutto ciò che so di loro è che sono contadini come noi e non mi hanno mai fatto nulla di male”. Quando al posto dei ritratti di Putin e Zelensky ci saranno i volti di due contadini con la barba ispida e le mani callose, forse allora la guerra finirà per davvero.
Foto: Alfredo Bosco
Foto: Alfredo Bosco