Nel momento in cui la pala Maccabei di Antonio Ciseri (1857-1863) fu presentata, prima di raggiungere l’altare di Santa Felicita, fu accolta quale il maggiore raggiungimento italiano del Purismo di linea francese, “alla Ingres”, ma anche percepita come una composizione nutrita di complessi riferimenti formali e culturali, tali da suscitare molteplici interpretazioni. Lo attestano le recensioni del tempo, che davanti alla strage dei giovani Maccabei evocarono il ricordo del gruppo marmoreo dei Niobidi, ma anche le immagini – che certo erano negli occhi di molti – di più recenti martirii, quelli subiti da quanti non erano mai tornati dalle guerre di Indipendenza.
Nella sua imponenza, l’opera di Ciseri campeggia al centro della prima sala, dedicata a un affondo cronologico, a quegli anni vissuti dall’Italia in travaglio politico e culturale, ideologico ed etico, nella ricerca di un’unità nazionale; e ci avverte di come, negli intenti degli artisti o negli animi dei riguardanti, i soggetti sacri potessero prestarsi a costituire segni e metafore della contemporaneità. A percorrere la mostra con una lente di ingrandimento da storico, saranno infatti numerose le opere a rivelarsi allusive a fatti storici.
Antonio Ciseri, I Maccabei, 1857-1863, Firenze, Chiesa di Santa Felicita
E così, anche un soggetto evangelico evocativo di intimità domestica quale può apparire Nazareth di Maurice Denis (1905) – dove i bambini raffigurati ricordano quelli delle figlie di Berthe de La Laurencie già ritratte dal pittore – può celare riferimenti alla contemporaneità: se il tema della famiglia s’innesta su quello della Sacra famiglia (Maria con Elisabetta e, in disparte, san Giuseppe), è vero anche che il Gesù fanciullo assume il gesto di colui che insegna, certo in simbolo di opposizione e critica a quel processo di laicizzazione della scuola che in Francia condusse alle Leggi Combes (1905) che sottrassero il diritto all’insegnamento alle congregazioni religiose.
Maurice Denis, Nazareth, 1905, Città del Vaticano, Musei Vaticani
Se poi nel primo dopoguerra il passo evangelico del ritorno del figliol prodigo era diffuso e spesso adottato quale metafora di una riconciliazione tra la modernità e la classicità, sentita come necessaria dopo la frattura delle avanguardie, di “ritorno” alla tradizione, il Figliol prodigo di Arturo Martini (1927) si può eleggere a caso esemplare, non potendosi tuttavia esaurire come il riflesso di una moda iconografica. L’ampia cultura artistica dello scultore, memorie autobiografiche (la morte del padre) e una resa che partecipa dell’emozione di quel primo struggente contatto fisico, si fondono in uno dei manifesti della cultura artistica italiana degli anni Venti.
Arturo Martini, Figliol prodigo, 1927, Acqui Terme, Casa di Riposo “Jona Ottolenghi”
Saranno tuttavia i temi della Passione di Cristo a venire diffusamente eletti a metafora del dramma della guerra, come avverrà soprattutto a ridosso del secondo conflitto mondiale, da Otto Dix a Manzù, da Sutherland a Chagall, per citare solo alcuni degli artisti presenti in mostra. Affiancate nel percorso espositivo sono, ad esempio, due Crocifissioni che ci dicono dell’atteggiamento di artisti italiani attorno 1940: Manzù in un piccolo bronzo raffigura nudi i personaggi, a voler rendere l’estrema prostrazione umana, ma pone un elmetto sul capo del soldato Longino che colpisce Cristo con la lancia, riportando così all’attualità della guerra; Guttuso, a proposito della sua monumentale tela, giudicata allora scandalosa e blasfema, aveva dichiarato: «Voglio dipingere il supplizio del Cristo come una scena di oggi. Non certo nel senso che Cristo muore ogni giorno sulla croce per i nostri peccati… ma come simbolo di tutti coloro che subiscono l’oltraggio, carcere, supplizio, per le loro idee».
A sinistra: Giacomo Manzù, Crocifissione, 1939-1940, Roma, GNAM – Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea; a destra: Renato Guttuso, Crocifissione, 1940-1941, Roma, GNAM – Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Poteva anche avvenire che un artista come Graham Sutherland (1947), secondo un procedimento creativo inverso rispetto a quello appena ricordato, nell’esigenza di raffigurare una Crocifissione, trovasse spunto non solo nella cultura artistica storica (il cinquecentesco altare di Isenheim di Grünewald, oggi a Colmar) o contemporanea (il Guernica di Picasso o le ricerche di Bacon intorno al tema della Crocifissione), ma proprio nell’attualità: nelle immagini dei cadaveri e dei sopravvissuti scattate dagli americani all’apertura di campi di sterminio tedeschi, dunque in quei «corpi torturati [che] sembravano figure deposte dalla croce», come dirà.
Graham Sutherland, Studio per la Crocifissione, 1947, Città del Vaticano, Musei Vaticani
L’icona di questo traslato della Croce di Cristo come pena del mondo, è da vedersi infine nella Crocifissione bianca di Chagall, non solo perché vi si può leggere un invito al dialogo interreligioso tra cristiani ed ebrei, come è stato più volte sottolineato. L’uomo sulla croce si qualifica immediatamente come un ebreo (il tallit al posto del perizoma; la menorah ai piedi) e a circondarlo non sono i soldati di età romana, bensì i nazisti che incendiano le sinagoghe o le armate che devastano i paesi: siamo nel 1938. Tuttavia, in quelli che fuggono a piedi o accalcandosi sul barcone, nell’anziano che cerca di mettere in salvo i rotoli della legge (la sua cultura, la sua tradizione), in quella madre che corre quasi a uscire dal quadro stringendo il figlio (cercando uno scampo per gli affetti), ritroviamo tante immagini anche ricorrenti nel nostro tempo e siamo presi da sgomento e commozione forse come quelli che nel 1863 si trovarono davanti i martiri di Ciseri.
Queste e altre opere presenti in mostra, affrontate con animo di credente o con spirito laico, si impongono quali occasioni per riflettere sull’uomo, sul suo passato, sul suo futuro.
Marc Chagall, Crocifissione bianca, 1938, Chicago, The Art Institute of Chicago
Lucia Mannini, curatrice della mostra Bellezza divina tra Van Gogh, Chagall e Fontana: www.palazzostrozzi.org/bellezzadivina