Nel suo saggio presente nel catalogo della mostra Anselm Kiefer. Angeli caduti edito da Marsilio Arte, il filosofo Maurizio Ferraris, professore ordinario di filosofia teoretica nella facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Torino, riflette sul tema del ruolo del critico nell’arte contemporanea, alla luce delle implicazioni filosofiche e letterarie, con particolare attenzione all’opera di Anselm Kiefer.
Il postmoderno ci ha abituati alla figura del critico come artista, che espone in primo piano la propria figura, trasformando l’artista in una figura subalterna e variamente sostituibile. Se l’opera vale, è per le parole del critico che lo introduce nel mondo dell’arte, conferendo senso a ciò che non necessariamente ne aveva, o perché era volutamente superficiale, o perché era ironica, o ancora perché era la citazione di altre opere. Come una guida, ma più ancora come un domatore da circo, mescolando provocazione e sussiego, il critico dava voce all’opera e spiegava perché dovevamo apprezzarla.
Kiefer capovolge questa visione. È l’artista che prende il posto del critico, che spiega se stesso al proprio interlocutore, forte del proprio sapere, anche accademico. Nel corso degli anni gli sono state conferite diverse lauree honoris causa in filosofia e ha alle spalle studi incompiuti di giurisprudenza prima di dedicarsi completamente all’arte, da non disgiungere da una conoscenza eclettica e propriamente faustiana:
« Habe nun, ach! Philosophie, / Juristerei und Medizin, / Und leider auch Theologie / Durchaus studiert, mit hei.em Bemühn. / Da steh ich nun, ich armer Tor!»
Johann Wolfgang von Goethe, Faust, 1832
«Filosofia ho studiato, / diritto e medicina, / e, purtroppo, teologia, / da capo a fondo, con tutte le mie forze. / Adesso eccomi qui, povero illuso, / e sono intelligente quanto prima».
Dati questi presupposti, Kiefer propone appunto un capovolgimento del postmoderno. Non è il critico che spiega l’opera con un dominio totale e onnisciente, non è lui che conferisce il senso ma, proprio al contrario, il critico diventa un detective che risale il fiume, alla ricerca di un artista che è il massimo critico di se stesso, e di cui il critico si fa tramite e narratore. Attraverso questo capovolgimento, l’opera critica si trasforma in un viaggio iniziatico in cui l’interprete ha il solo ufficio di narratore di un percorso che si spiega da solo.
Kiefer, l’artista, non abbisogna di intermediari, perché si espone e si autocomprende con una maestà wagneriana, nei due siti, Barjac e Croissy, entrambi in Francia, in cui presenta le sue opere: come delle Bayreuth senza spettatori ma attraversati in ambo i casi dallo spirito del colossale. Rispetto all’autore, il critico si presenta appunto come un narratore, impegnato alla scoperta di un uomo e di un’opera. Non è difficile trovare delle risonanze letterarie in questo atteggiamento: dopotutto, il critico è Marlow in Cuore di tenebra, il testimone secondario ma essenziale che si spinge alla scoperta di qualcosa e di qualcuno che ha, nel cuore, un mistero e il ricordo dell’orrore. Gli analoghi letterari di questa postura, di questo avvicinamento per gradi al mistero sono molti, e si spingono molto lontano e vanno da Jonathan Harker in cammino verso il castello di Dracula a Paul Celan in visita alla baita di Martin Heidegger a Todtnauberg. Ma, oltre che testimone e ricercatore, lo spettatore è anche discepolo, e qui l’analogia possibile è il giovane Nietzsche che visita la casa di Wagner a Tribschen, presso Lucerna. Che cosa si trae da questa visita del cosmo di Kiefer trasposto nel Palazzo Strozzi?
Prima di tutto un concetto, quello della vertigine della lista. Kiefer accumula oggetti, li classifica, così come classifica le influenze culturali più ricche e disparate. Oggetti, tecniche, edifici, installazioni e, ovviamente, quadri composti in uno stile inconfondibile e caratterizzati, su tutti, dalla forte presenza della scrittura, carica di evocazioni simboliche. Kiefer lo dichiara esplicitamente: non crede nell’arte pura; e, inversamente, proprio come Wagner criticato da Nietzsche, ritiene che l’arte debba sempre andare al di là dell’arte. Le direzioni di questo oltrepassamento sono due, il mistero e la storia.
Quanto al mistero, è uno degli elementi più presenti e pregnanti nell’opera di Kiefer. Con un anagramma un po’ sghembo, l’atelier diventa l’alethier, il luogo dove, da un fondo di nascondimento, si manifesta la verità, alètheia, nel greco di Heidegger. Il porsi in opera della verità di cui parla Heidegger in una celebre conferenza del 1935 che, tra l’altro, è densa di significati politici, dal momento che si richiama insieme all’antichità classica e alla grande manifestazione nazista di Norimberga del 1935, voluta da un abile regista come Albert Speer, che allora era l’architetto di Hitler ma che negli ultimi anni della guerra ricoprì la carica di ministro per gli armamenti del Terzo Reich. E non è un caso che alle architetture e anche agli interni di Speer Kiefer dedichi un’attenzione speciale. È un modo essenziale per fare i conti con la storia.
Il terzo elemento è la catastrofe, che forse è il tema più costante e segreto nella vita e nell’opera di Kiefer, cresciuto in una Germania fatta di rovine, che però lui legge retrospettivamente come possibilità: tutto è vago, tutto è friabile, tutto è possibile. Sono queste rovine, con la loro apertura, la loro gigantesca indeterminatezza, che alimentano una parte della poetica di Kiefer che in questo si fa carico di ciò che Karl Jaspers chiamò «la colpa tedesca». Qui trova risonanza un trauma non troppo nascosto, la nascita nel 1945, l’esperienza di città tedesche ridotte a filamenti e rovine: «Per me è la cosa più edificante in assoluto. Non riesco a distogliere lo sguardo. È così meraviglioso perché è l’inizio, dove tutto è possibile». Non la fine ma, appunto, un altro inizio, e le rovine sono per Kiefer «la cosa più bella che ci sia».
Leggi il saggio completo nel catalogo della mostra Anselm Kiefer. Angeli caduti disponibile al bookshop di Palazzo Strozzi, in libreria oppure negli store online.
In copertina: Anselm Kiefer a Croissy. © Anselm Kiefer. Foto Davide Corona, SayWho.