La mostra “Nascita di una Nazione. Tra Guttuso, Fontana e Schifano” (11 marzo-22 luglio 2018) ha rappresentato la cornice ideale per lo sviluppo di un progetto di collaborazione tra il corso di Storia dell’Arte Contemporanea, tenuto dalla professoressa Alessandra Scappini (SAGAS, Università di Firenze), e la Fondazione Palazzo Strozzi. Gli studenti del corso hanno lavorato alla stesura di un saggio critico dedicato a una delle quattro aree tematiche di discussione emerse durante la visita alla mostra e approfondite in aula attraverso una bibliografia di riferimento:
- arte e sistema (politico, socio – economico, culturale);
- opera come creazione e operazione per il coinvolgimento del pubblico;
- la linea analitica dell’arte contemporanea come indagine di carattere metalinguistico;
- l’ironia come atteggiamento proprio dell’artista.
Gli elaborati sono stati valutati per l’originalità della proposta, la qualità della scrittura e l’approfondimento della ricerca. Pubblichiamo con grande piacere sul nostro blog i saggi di Anna De Bernardis, Marta Matassoni, Sabrina Piergiovanni ed Emma Rossi.
di Emma Rossi
Sintesi
Gli ultimi due anni di vita di Pino Pascali sono profondamente segnati dal rapporto con Fabio Sargentini e con gli artisti che gravitano intorno alla sua galleria, L’Attico. Un aspetto significativo nelle opere di tale periodo è l’ironia, che egli utilizza in base ad una concezione per certi versi affine ma fondamentalmente opposta a quella dell’amico Jannis Kounellis.
Parole chiave: L’Attico, Fabio Sargentini, Pino Pascali, Jannis Kounellis, ironia.
Introduzione
Nel 1966 prende forma lo stretto sodalizio tra Pino Pascali e Fabio Sargentini. Pascali è un giovane artista eclettico, pugliese ma formatosi all’Accademia di Roma, conosciuto nel mondo della pubblicità per i suoi lavori grafici ed anche già noto ai critici per le sue prime mostre presso La Tartaruga di Plinio De Martiis e da Sperone, a Torino. Fabio è figlio del gallerista Bruno Sargentini, proprietario de L’Attico, sta cercando l’indipendenza e l’occasione gli si offre proprio nell’incontro con Pascali: la mostra Pino Pascali Nuove sculture, che inaugura il 29 novembre, è la prima che lui organizza in completa autonomia e segna l’inizio di una nuova stagione in cui L’Attico sarà al centro della scena artistica romana. Fino all’11 settembre del 1968, data della tragica morte dell’artista a causa di un incidente, le mostre proposte sono grandemente influenzate dalla poetica di Pascali. L’altro artista di punta della galleria è in quegli anni Jannis Kounellis, di origine greca, giunto anch’egli a Roma nel 1956 e noto per alcuni lavori esposti a La Tartaruga. I due lavorano, per e con Sargentini, su temi comuni e si influenzano a vicenda nella ricerca.
Ricorrono, nelle opere presentate a L’Attico nel biennio 1966-1968, la tematica del gioco e i riferimenti al mondo dell’infanzia. Si evidenzia da parte degli artisti un atteggiamento interpretabile su più piani: se entrambi compiono operazioni “ironiche” in senso corrente, cioè si prendono gioco di determinate convenzioni, ad un livello più profondo si può operare una distinzione tra Pascali, che esercita l’ironia nel suo senso etimologico di “finzione” 1 e Kounellis, che si pone lo scopo contrario, cioè quello di svelare, per frammenti, la realtà così com’è.
Il mare in una stanza
La mostra Pino Pascali Nuove Sculture del 1966 si articola in due fasi espositive. Nella prima vengono presentate Decapitazione delle giraffe, Decapitazione del rinoceronte, Il grande rettile, Decapitazione della scultura, Ricostruzione del dinosauro. Nella seconda Il mare, La scogliera, Barca che affonda, Due balene.
Entrambi i gruppi sono formati da opere di grandi dimensioni, che riplasmano lo spazio della galleria. Protagonisti sono gli animali ed alcuni elementi della natura: Pascali proietta il visitatore in un mondo infantile e primordiale, di creature primitive come il dinosauro o tuttora esistenti, riportate alla forma più semplice possibile. L’operazione presenta diversi aspetti ironici: la Decapitazione delle giraffe fa il verso ai trofei di caccia e si prende gioco della “borghesia assassina, che ai propri muri appende parti mutile di animali che furono vivi” (Barbero e Pola, 2010: 33), la Ricostruzione del dinosauro invece allude sarcasticamente agli allestimenti dei musei paleontologici. In Decapitazione della scultura l’ironia è a doppio taglio: “il gioco è, da una parte, dare una forma vivente alla scultura, come se essa possedesse un’animalità plastica fondamentale, dall’altra decapitare questa forma plastica e astratta come se si trattasse di un animale” (Tonelli, 2010: 73). E poi Il mare (fig. 1), l’opera che più stupisce i visitatori: 24 pannelli di onde colpite in un punto da un fulmine nero dalla forma serpentina di warburghiana memoria, con le Due balene che emergono con la coda dalla parete, come sospese al di sopra dell’acqua. L’opera occupa completamente una sala della galleria, impedendo al visitatore di camminarvi ed innescando una relazione inedita con lo spazio espositivo: “Pascali mi ha suggerito con Il Mare un altro modello di spazio – dichiarerà in seguito Sargentini – e da allora sono stato fissato con lo spazio da interpretare, non solo da parte degli artisti ma anche da parte mia” (Barbero e Pola, 2010: 195).
L’artista definisce queste sue opere “finte sculture” in quanto la tecnica non assomiglia a quella della scultura vera e propria: la struttura interna è costituita da un telaio in legno e il rivestimento è di tela. Afferma infatti: “io penso di non essere uno scultore, ho questa immagine verso me stesso: è una cosa che potrebbe essere anche grave, ma chissà se è grave, per me anche quello è divertente”. In occasione dell’esposizione della serie delle Armi alla Galleria Sperone di Torino Pascali aveva scritto al gallerista: “penso che il problema è di ripulire l’immagine da qualsiasi attributo e simbolo ricollocandolo nella sua presenza oggettuale”(Tonelli, 2010: 49). L’intento di presentare un’immagine in purezza, al suo stato primordiale, è presente anche nella prima mostra a L’Attico: se le Armi avevano a primo impatto un’apparenza di veridicità, nelle “finte sculture” la finzione è ancor più evidente; “è la finzione – dice in un’intervista – che determina automaticamente l’identificazione con una certa immagine, una certa parola sul vocabolario, cannone, scultura, Brancusi” (Lonzi, 2010: 271).
Il giardino – I giuochi
A partire dal mese di marzo del 1967 L’Attico ospita una mostra personale di Kounellis. Il titolo è Il giardino – I giuochi e le opere sono di varia natura. Rose di tessuto sono applicate alle pareti con bottoni automatici, alcune gabbie contengono uccelli vivi e un ambiente specchiante prevede la presenza dell’artista stesso seduto al centro di binari giocattolo sui quali transita un trenino. Il riferimento, dichiarato anche dal titolo, è al gioco, ma in un’accezione diversa da quella intesa da Pascali: Kounellis presenta sì alcuni elementi legati all’infanzia, ma li inserisce in una dimensione altra “nella quale l’oggetto e la materia – inerte o vitale – sono veicolo di simbologie e allusività primordiali, non futuribili” (Barbero e Pola, 2010: 45). La scelta di inserire degli animali vivi sarà stata forse anche discussa con l’amico Pascali, che in un’intervista spiegava: “È come la storia di prendere in mano un uccello che prima volava, un passero, una rondine…veramente, mi trovo a contatto con un essere che non fa parte dei calcoli, capisci, esisteva già e ha la mia stessa presenza, mia stessa carica di vita, mia stessa natura.” (Lonzi, 2010:15). In Kounellis manca, tuttavia, il distacco ironico pascaliano: l’animale non è il soggetto dell’opera ma è l’opera, gli uccelli invadono lo spazio della galleria con la loro presenza rumorosa, sfidando tutte le convenzioni del sistema dell’arte. Nelle opere dell’artista greco è presente una carica di contestazione sarcastica che le rende quasi aggressive nei confronti dell’osservatore. “I fiori erano quasi una cosa decorativa – dirà – con le gabbie volevo invece disegnare una cornice che con il passare del tempo sporcasse a terra. Così nel carbone c’è una cattiveria nel voler sporcare sotto, è lo stacco tra la struttura e la sensibilità vitale.” (Celant, 1983: 46).
A novembre dello stesso anno, Sargentini presenta una seconda mostra di Kounellis, nella quale vengono esposte le opere Cactus, Pappagallo, Acquario e Cotoniera. Ancora una volta lo spazio ospita creature viventi e a chi vorrebbe leggere le opere secondo criteri puramente estetici l’artista oppone la presenza fisica e reale dell’animale: “una cosa assurda come è legato il pensiero a certi ragionamenti proprio condizionanti, perché uno, così, non riesce a vedere nemmeno che lì c’è un pappagallo, che non è un accostamento di colori, perché il pappagallo è il pappagallo, no?” (Lonzi, 2010: 157). Nel catalogo viene pubblicata la trascrizione di un bizzarro dialogo tra alcuni bambini in visita alla mostra e il pappagallo, una conversazione senza regole e alla pari perché i bambini non sono ancora condizionati dalle convenzioni sociali. Infatti, come afferma Calvesi, “le but ultime de Kounellis semble être l’élaboration d’un espace où, en y entrant, l’homme ne se sentirait plus supérieur à la bête ni même au charbon, mais plutôt une partie intégrante d’un monde libre et sans hiérarchies” (Calvesi, 1969: 36).
Fuoco Immagine Acqua Terra
Pochi mesi dopo Sargentini organizza una mostra collettiva che riunisce molti giovani artisti, gran parte dei quali confluirà nel movimento dell’Arte Povera. Fuoco Immagine Acqua Terra, che inaugura l’8 giugno 1967, presenta i lavori di Bignardi, Schifano, Ceroli, Gilardi, Pistoletto, Kounellis e Pascali, riassumendo “diverse tipologie linguistiche ed operative attorno al dialogo tra la dimensione organica e primordiale degli elementi vitali e la propositività di una nuova immagine” (Barbero e Pola, 2010: 21).
Gli elementi naturali sono in primo piano; c’è chi, come Gilardi, lavora ad una riproduzione della natura, e chi la rende parte dell’opera: Kounellis, nel suo Senza Titolo (fig. 2) fa emergere una vera e propria fiamma da un fiore metallico; “il più sottile degli elementi – commenta Boatto nel catalogo – esercita il suo aereo incantamento, celebra la liturgia del fuoco” (Barbero e Pola, 2010: 65). Le opere di Pascali rivelano nuovamente un atteggiamento ironico: le sue Pozzanghere e i Metri cubi di terra contengono da un lato la presenza della natura, degli elementi primari della terra e dell’acqua, dall’altro un equivoco: i metri cubi non sono realmente pieni di terra, hanno una struttura cava ed un rivestimento sottile di terra. “La terra ricopre il cubo di legno, è l’idea della terra ma non è terra” (Bonito Oliva, 2004: 63) commenta Kounellis, sottolineando quell’aspetto di simulazione che è proprio di Pascali e distante invece dalla sua visione. Kounellis non imita la natura, ma mira a svelarne alcuni frammenti, “il suo fuoco – afferma Calvesi – prima che un elemento visivo, è quasi un simbolo, un fulcro, un mitico ombelico di realtà”(Barbero e Pola, 2010: 58).
Ricostruzioni della natura
Il 1968 è per Pascali l’anno del massimo successo: dopo aver realizzato varie mostre personali e collettive 2 torna da Sargentini per una nuova esposizione in due fasi e viene chiamato a presentare alcune opere alla Biennale di Venezia. A L’Attico espone Ricostruzioni della natura presentando inizialmente i Bachi da setola e altri lavori in corso e, in un secondo momento, opere come Liane, Ponte, Cesto, Cavalletto, Tela di Penelope.
I Bachi sono creature sovradimensionate formate da spazzole di plastica colorata e sono accompagnati da alcuni bozzoli, posizionati negli angoli che incrementano la leggibilità del gioco di parole. Rappresentano, secondo Fagiolo Dell’Arco, “il lavoro più eloquente e svagato e forse meno profondo, ma chiariscono al massimo il suo metodo: la metamorfosi, un detto-fatto tra immagine e forma” (D’Elia, 1983: 26), sono l’immagine di un’immagine mentale, la concretizzazione di un cortocircuito linguistico – magari pensato inizialmente come battuta 3 – che suscita ironia nell’osservatore. “I suoi giochi di parole – osserva l’amico Vittorio Brandi Rubiu – non sono mai calembours fini a se stessi, ma innescano una reazione a catena” (Brandi Rubiu, 2013: 8).
Il contrasto tra elementi naturali e materiali industriali emerge anche nella seconda fase della mostra: le opere rappresentano strumenti e manufatti primitivi, ma fingono la materialità della corda con pagliette di ferro. Le Liane, il Ponte, il Cavalletto sembrano ricostruire un tempo lontano, un’era preistorica ideale, in cui ancora non esisteva il concetto di arte. I giochi di parole si accavallano: la lana d’acciaio forma una liana, il ponte levatoio ha quasi la struttura di un lavatoio. La Tela di Penelope e l’Arco di Ulisse alludono al mondo della mitologia, presente nel suo immaginario 4, secondo un’evocazione che si serve sempre dell’ironia.
All’interno della mostra Pascali transita spesso, compiendo quasi delle performance involontarie mentre, vestito di rafia come un “selvaggio”, dialoga in dialetto con la sua scimmia Cita; le sue azioni sono state lette in chiave tribale e sciamanica (Stocchi, 2017) ma potrebbero forse essere viste come una modalità di vivere le opere e l’ambiente della galleria, Pascali era d’altronde “più vicino a questa realtà perché si era astratto da essa come pietrificazione storica per conquistarla come la propria realtà individuale, biologica, naturale… realizzazione della fantasia” (Kounellis, 1993: 36).
A partire dal mese di giugno alcune opere di Pascali sono presenti alla XXXIV Biennale di Venezia; si tratta di lavori legati alla cultura primitivista e alla sua passione per l’arte negra, alcuni dei quali già esposti da Sargentini: Pelo, Contropelo, Cesto, Stuoia, Le penne d’Esopo, Archetipo, Solitario e Liane, Vedova blu. I giochi di parole e i rimandi ironici sono sempre presenti nelle opere che formano “un’isola di fantasia in mezzo alla contestazione studentesca che chiedeva all’arte un impegno politico al quale Pascali rispose con libero gioco” (Lodolo, 2012: 181). La contestazione e le lotte non sono, secondo Pascali, cosa da artisti; a differenza di Kounellis si tiene a distanza dal dibattito politico, mantenendo intatto il candore delle sue opere.
L’Attico dopo Pascali
Pascali trascorre in vacanza l’estate del 1968, l’ultima della sua vita; il 29 agosto, appena tornato a Roma, ha un incidente motociclistico che lo porta alla morte pochi giorni dopo.
Fabio Sargentini, sconvolto dal dolore per la perdita dell’amico, continua tuttavia a cercare il nuovo spazio espositivo che stavano immaginando insieme. Nel gennaio del 1969 Kounellis è il primo a misurarsi con le stanze della nuova sede de L’Attico in via Beccaria che è, ironia della sorte, una sorta di garage al piano interrato. L’artista dipinge per Sargentini anche la saracinesca di entrata (fig. 3), che diventa allo stesso tempo porta ed insegna. La mostra di Kounellis si intitola 12 cavalli vivi e le opere esposte sono realmente dodici cavalli: egli porta all’estremo l’operazione già in nuce ne Il giardino – I giuochi e in Pappagallo, invadendo lo spazio espositivo con dei frammenti di realtà vera; il confine tra arte e vita è annullato. La carica contestataria è fortissima: “quando le strutture, come la galleria, invadono troppo il mio mondo, ne mostro la profondità e tiro l’arco in modo che per loro è impossibile entrare, se entrano ci lasciano la pelle” dichiara Kounellis (Celant, 1983: 62). I cavalli con la loro presenza reale sconvolgono lo spazio neutrale della galleria, annientano la possibilità di una visione estetica e di una interpretazione. Il punto di arrivo di Kounellis è radicale e la sua posizione rispetto all’ironia è diametralmente opposta a quella di Pascali. Pascali aveva mantenuto l’atteggiamento del bambino “che copia il padre e si mette la pistola, perché il padre porta la pistola, e si mette la divisa, perché il padre porta la divisa” ma nel gioco del copiare crea una simulazione, una finzione diversa dalla realtà: “il bambino si mette una mazza al posto della pistola e si mette una giacca di carta oppure un cappello di cartone”. La sua operazione artistica aveva sempre mantenuto il carattere di finzione: “Copiare il padre, in fondo, potrebbe essere delle volte come, per me, fare dei cavalli. Io copio un cavallo: siccome non posso mettergli la pelle lucida col sudore, con le mosche che girano e con la rotondità dei muscoli che si muovono continuamente, io col materiale più semplice da usare per me metto la tela su delle costole di legno” (Lonzi, 2010: 266-267).
Pochi mesi prima sia Kounellis che Pascali avevano partecipato, insieme a Sargentini e all’artista Eliseo Mattiaci, alle riprese di SKMP2 di Luca Patella. Pascali aveva scelto di muoversi vicino e dentro il mare – l’elemento da cui proveniva e che tanto aveva caratterizzato i suoi lavori – e nell’ultima sua scena di baciare la testa di una scultura classica (elemento che comparirà anche in tante opere di Kounellis). Il bacio tra l’artista e la statua in mezzo al mare è stato visto poi, a causa delle tristi circostanze, come un addio alla Scultura, nella consueta modalità di “dissacrazione non ideologica”, “gioco”, “libertà incondizionata e priva di obiettivi utopistici” (Tonelli, 2010: 27), segno di una fiducia nell’arte che salva l’uomo “dalla serietà della vita” e suscita in lui “un’inattesa fanciullezza” (Ortega y Gasset, 1998: 89).
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Note
1 Si fa riferimento al significato originale del termine, derivante dal greco εἰρωνεία.
2 Tra le tante mostre collettive, italiane e internazionali, alle quali Pascali partecipa tra 1967 e 1968 si ricordano Arte povera – Im spazio curata da Germano Celant alla Galleria La Bertesca di Genova, e Lo spazio dell’immagine che si tiene a Palazzo Trinci a Foligno. Le maggiori esposizioni personali si tengono nel 1967 alla Galerie Thelen di Essen, alla Galerie Ars Intermedia di Colonia, da Iolas sia a Milano che a Parigi (Stocchi, 2017: 111-133).
3 Molti amici di Pascali ricordano le sue battute ed i suoi ricorrenti scherzi (Lodolo, 2012).
4 Pascali, in gioventù, aveva frequentato il liceo classico a Bari (Lodolo, 2012: 18-19).