L’artista come critico

Nel suo saggio presente nel catalogo della mostra Anselm Kiefer. Angeli caduti edito da Marsilio Arte, il filosofo Maurizio Ferraris, professore ordinario di filosofia teoretica nella facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Torino, riflette sul tema del ruolo del critico nell’arte contemporanea, alla luce delle implicazioni filosofiche e letterarie, con particolare attenzione all’opera di Anselm Kiefer.

Il postmoderno ci ha abituati alla figura del critico come artista, che espone in primo piano la propria figura, trasformando l’artista in una figura subalterna e variamente sostituibile. Se l’opera vale, è per le parole del critico che lo introduce nel mondo dell’arte, conferendo senso a ciò che non necessariamente ne aveva, o perché era volutamente superficiale, o perché era ironica, o ancora perché era la citazione di altre opere. Come una guida, ma più ancora come un domatore da circo, mescolando provocazione e sussiego, il critico dava voce all’opera e spiegava perché dovevamo apprezzarla.

Kiefer capovolge questa visione. È l’artista che prende il posto del critico, che spiega se stesso al proprio interlocutore, forte del proprio sapere, anche accademico. Nel corso degli anni gli sono state conferite diverse lauree honoris causa in filosofia e ha alle spalle studi incompiuti di giurisprudenza prima di dedicarsi completamente all’arte, da non disgiungere da una conoscenza eclettica e propriamente faustiana:

« Habe nun, ach! Philosophie, / Juristerei und Medizin, / Und leider auch Theologie / Durchaus studiert, mit hei.em Bemühn. / Da steh ich nun, ich armer Tor!»
«Filosofia ho studiato, / diritto e medicina, / e, purtroppo, teologia, / da capo a fondo, con tutte le mie forze. / Adesso eccomi qui, povero illuso, / e sono intelligente quanto prima».

Johann Wolfgang von Goethe, Faust, 1832
Anselm Kiefer. Angeli caduti, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024 © Anselm Kiefer. Foto Ludovica Arcero, SayWho

Dati questi presupposti, Kiefer propone appunto un capovolgimento del postmoderno. Non è il critico che spiega l’opera con un dominio totale e onnisciente, non è lui che conferisce il senso ma, proprio al contrario, il critico diventa un detective che risale il fiume, alla ricerca di un artista che è il massimo critico di se stesso, e di cui il critico si fa tramite e narratore. Attraverso questo capovolgimento, l’opera critica si trasforma in un viaggio iniziatico in cui l’interprete ha il solo ufficio di narratore di un percorso che si spiega da solo.

Kiefer, l’artista, non abbisogna di intermediari, perché si espone e si autocomprende con una maestà wagneriana, nei due siti, Barjac e Croissy, entrambi in Francia, in cui presenta le sue opere: come delle Bayreuth senza spettatori ma attraversati in ambo i casi dallo spirito del colossale. Rispetto all’autore, il critico si presenta appunto come un narratore, impegnato alla scoperta di un uomo e di un’opera. Non è difficile trovare delle risonanze letterarie in questo atteggiamento: dopotutto, il critico è Marlow in Cuore di tenebra, il testimone secondario ma essenziale che si spinge alla scoperta di qualcosa e di qualcuno che ha, nel cuore, un mistero e il ricordo dell’orrore. Gli analoghi letterari di questa postura, di questo avvicinamento per gradi al mistero sono molti, e si spingono molto lontano e vanno da Jonathan Harker in cammino verso il castello di Dracula a Paul Celan in visita alla baita di Martin Heidegger a Todtnauberg. Ma, oltre che testimone e ricercatore, lo spettatore è anche discepolo, e qui l’analogia possibile è il giovane Nietzsche che visita la casa di Wagner a Tribschen, presso Lucerna. Che cosa si trae da questa visita del cosmo di Kiefer trasposto nel Palazzo Strozzi?

Anselm Kiefer a Croissy. © Anselm Kiefer. Foto Davide Corona, SayWho

Prima di tutto un concetto, quello della vertigine della lista. Kiefer accumula oggetti, li classifica, così come classifica le influenze culturali più ricche e disparate. Oggetti, tecniche, edifici, installazioni e, ovviamente, quadri composti in uno stile inconfondibile e caratterizzati, su tutti, dalla forte presenza della scrittura, carica di evocazioni simboliche. Kiefer lo dichiara esplicitamente: non crede nell’arte pura; e, inversamente, proprio come Wagner criticato da Nietzsche, ritiene che l’arte debba sempre andare al di là dell’arte. Le direzioni di questo oltrepassamento sono due, il mistero e la storia.

Anselm Kiefer. Angeli caduti, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024 © Anselm Kiefer. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

Quanto al mistero, è uno degli elementi più presenti e pregnanti nell’opera di Kiefer. Con un anagramma un po’ sghembo, l’atelier diventa l’alethier, il luogo dove, da un fondo di nascondimento, si manifesta la verità, alètheia, nel greco di Heidegger. Il porsi in opera della verità di cui parla Heidegger in una celebre conferenza del 1935 che, tra l’altro, è densa di significati politici, dal momento che si richiama insieme all’antichità classica e alla grande manifestazione nazista di Norimberga del 1935, voluta da un abile regista come Albert Speer, che allora era l’architetto di Hitler ma che negli ultimi anni della guerra ricoprì la carica di ministro per gli armamenti del Terzo Reich. E non è un caso che alle architetture e anche agli interni di Speer Kiefer dedichi un’attenzione speciale. È un modo essenziale per fare i conti con la storia.

Anselm Kiefer. Angeli caduti, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024 © Anselm Kiefer. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

Il terzo elemento è la catastrofe, che forse è il tema più costante e segreto nella vita e nell’opera di Kiefer, cresciuto in una Germania fatta di rovine, che però lui legge retrospettivamente come possibilità: tutto è vago, tutto è friabile, tutto è possibile. Sono queste rovine, con la loro apertura, la loro gigantesca indeterminatezza, che alimentano una parte della poetica di Kiefer che in questo si fa carico di ciò che Karl Jaspers chiamò «la colpa tedesca». Qui trova risonanza un trauma non troppo nascosto, la nascita nel 1945, l’esperienza di città tedesche ridotte a filamenti e rovine: «Per me è la cosa più edificante in assoluto. Non riesco a distogliere lo sguardo. È così meraviglioso perché è l’inizio, dove tutto è possibile». Non la fine ma, appunto, un altro inizio, e le rovine sono per Kiefer «la cosa più bella che ci sia».

Anselm Kiefer. Angeli caduti, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024 © Anselm Kiefer. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

Leggi il saggio completo nel catalogo della mostra Anselm Kiefer. Angeli caduti disponibile al bookshop di Palazzo Strozzi, in libreria oppure negli store online.

In copertina: Anselm Kiefer a Croissy. © Anselm Kiefer. Foto Davide Corona, SayWho.

Il Tour de France passa da Palazzo Strozzi Sabato 29 giugno il Grand Départ passa da via Strozzi

Per la prima volta nella sua storia, il Tour de France partirà dall’Italia con tre giornate speciali dal 27 al 29 giugno 2024 a Firenze. Anche Palazzo Strozzi è incluso nell’itinerario del Grand Départ fissato per sabato 29 giugno 2024: un evento di rilevanza mondiale che vedrà i ciclisti attraversare il cuore della città, coinvolgendo buona parte del centro storico.

La carovana partirà dal Villaggio presso il Parco delle Cascine all’incirca alle ore 12.00 in modalità non competitiva e raggiungerà piazza della Signoria, dove si fermerà per uno avvio istituzionale, prima di iniziare il vero e proprio percorso di gara di 206 km che da Firenze porterà i ciclisti fino a Rimini.

Accesso a Palazzo Strozzi il 29 giugno 2024

Il percorso del Tour de France del 29 giugno 2024 interesserà buona parte del centro di Firenze, inclusa via Strozzi, adiacente a Palazzo Strozzi. Per garantire il passaggio degli atleti e la sicurezza degli spettatori, l’intera via Strozzi e i suoi marciapiedi rimarranno interdetti al passaggio per tutta la durata dell’evento. All’incrocio tra via Strozzi e via Tornabuoni sarà garantito uno dei varchi pedonali di attraversamento del percorso di gara.

Dalla mattina di sabato 29 giugno 2024 e fino alla fine della manifestazione, il portone di via Strozzi rimarrà chiuso. L’accesso a Palazzo Strozzi sarà possibile esclusivamente attraverso i portoni di via Tornabuoni e piazza Strozzi.

La mostra Anselm Kiefer. Angeli caduti rimarrà aperta con il consueto orario dalle 10.00 alle 20.00 (ultimo ingresso un’ora prima della chiusura).

Consigli utili in occasione del Grand Départ

Il Grand Départ del Tour de France è un evento eccezionale che attrae appassionati di ciclismo e curiosi da tutto il mondo. Dal 27 al 30 giugno 2024, la viabilità del centro storico subirà notevoli modifiche e il flusso di persone può essere notevole.

Per visitare la mostra Anselm Kiefer. Angeli caduti consigliamo di:
– utilizzare i mezzi pubblici e prediligere gli spostamenti a piedi
per raggiungere Palazzo Strozzi, poiché il traffico veicolare sarà fortemente limitato;
– considerare maggior tempo di percorrenza per raggiungere la mostra e di arrivare da via Tornabuoni o piazza Strozzi;
– seguire le informazioni sui canali ufficiali del Comune di Firenze e del Grand Départ del Tour de France per ulteriori modifiche e variazioni.

Ci scusiamo per eventuali disagi nei giorni del Grand Départ e vi ringraziamo per la comprensione. Non vediamo l’ora di accogliervi a Palazzo Strozzi e di contribuire allo spettacolo imperdibile della corsa ciclistica più famosa al mondo.

Creazione e caduta

Nel suo saggio presente nel catalogo della mostra Anselm Kiefer. Angeli caduti edito da Marsilio Arte, il teologo, filosofo e sociologo Klaus Dermutz, riflette sul tema degli “angeli caduti” nelle opere della mostra, alla luce delle implicazioni filosofiche, letterarie, con particolare attenzione alla cultura tedesca.

Dio non è mai stanco […] di negarsi.

Andrea Emo

Creazione e caduta degli angeli, entrambe sono avvenute il primo giorno.
Nella Prima Scolastica (circa 800-1200) la concomitanza della creazione di Dio con la caduta degli angeli è una dottrina importante, considerata addirittura il primo atto della creazione. Dante fa propria questa teoria e nella Divina Commedia scrive: «Né giugneriesi, numerando, al venti», contando, non arriveresti a contare fino a venti, che Lucifero, con la sua superbia, ha già istigato una schiera di angeli a ribellarsi.

Anselm Kiefer. Angeli caduti, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024 © Anselm Kiefer. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

La rivolta innesca una violentissima controversia tra Dio e Lucifero. Il “portatore di luce” viene cacciato dal Paradiso e scaraventato sulla Terra, dove diventa il principe delle tenebre. Da una gigantesca collisione è scaturito anche l’elemento chimico utilizzato per il fondo dorato del dipinto di grande formato Engelssturz (Caduta dell’angelo) che, nel cortile di Palazzo Strozzi, apre la mostra Angeli caduti. Lo studio di Ralph Dutli, Das Gold der Träume. Kulturgeschichte eines göttlichen und verteufelten Metalls (L’oro dei sogni, storia culturale di un metallo divino e maledetto, 2020), tratta dell’origine di questo metallo “eterno”:

L’oro è uno straniero sulla Terra. Non è di quaggiù, è un inserto proveniente da corpi celesti lontani. È nato dalla collisione di stelle di neutroni: è un relitto di soli morenti. È penetrato nella crosta terrestre con le meteoriti. L’oro è dunque lo splendente frutto di collisioni catastrofiche. Nel giugno 2013, in una galassia distante 3,9 miliardi di anni luce, gli astronomi hanno osservato un lampo gamma, probabilmente causato dallo scontro tra due stelle di neutroni. Hanno calcolato che ciò potrebbe aver dato luogo fino a dieci masse lunari (735 triliardi di chilogrammi) di oro, che sono state scagliate nell’universo. Anche il nostro oro terrestre è […] nato così.

Anselm Kiefer. Angeli caduti, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024 © Anselm Kiefer. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

Il tema degli “angeli caduti” prosegue nella prima sala con Luzifer (Lucifero, 2023). La domanda che sorge in relazione agli angeli puri e agli angeli ribelli è da dove derivi il loro grande fascino, intatto ancora oggi. Nel suo studio Der Engel in der Moderne. Eine Figur zwischen Exilgegenwart und Zukunftsvision (L’angelo nell’età moderna. Una figura tra presente da esule e visione del futuro, 2022), Lena Zschunke spiega che il loro fascino deriva

dalla tensione esteticamente comunicata tra gerarchia e sovvertimento con cui l’angelologia ha dovuto fare i conti. La modernità specifica degli angeli risiede proprio nella loro incommensurabilità e nella loro posizione ambivalente tra ordine e minaccia dell’ordine, purezza e ibridismo, virtù e sovvertimento, bellezza e mostruosità.

In Engelssturz e Luzifer, Kiefer si avvicina a tali incommensurabilità e modernità adottando un fondo dorato pervaso di punti e particelle nere e scrivendo i nomi di due angeli: Lucifero e il nome in ebraico dell’arcangelo Michele – “Chi è come Dio?”. In Engelssturz, il titolo dell’opera si legge in corrispondenza della punta dell’ala sinistra, mentre sopra l’ala destra è riportato il nome in ebraico dell’angelo Michele. Si rimane sbigottiti quando, nel caos della distruzione nell’angolo in basso a destra, si vede un occhio nel frammento fotografico di un volto che ci guarda. In Luzifer, nel margine superiore del quadro, dopo il nome che dà il titolo all’opera sono stati apposti due punti, seguiti da לֵאָכיִמ (mîḵāʾēl) in maiuscolo. Lo stesso nome si trova anche sul lato inferiore dell’ala rovinata di un aereo precipitato che sporge nella sala.

I lavori presentati a Firenze si concentrano su tre temi fondamentali: la questione dell’inizio, l’esperienza della rottura e la domanda sulla possibilità che la rottura verificatasi all’inizio possa essere riparata alla fine dei tempi.

Anselm Kiefer. Angeli caduti, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024 © Anselm Kiefer. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

Nell’installazione En Sof (L’Infinito, 2016), Kiefer, grazie all’alchimia del vetro, stratifica in una teca i miti della creazione, l’uno nell’altro.

Sul pavimento scuro vi sono dei frammenti che rimandano alla “rottura dei vasi”, alla Shevirat ha-Kelim nella cosmogonia del mistico ebraico Isaak Luria (1534-1572). Dopo lo Tzimtzum, l’autoritrazione di Dio, si produce uno spazio in cui confluiscono le dieci Sephirot: incapace di reggere l’energia emanata, la metà dei vasi si infrange. Su una scala di legno che si regge da sola sono affissi quattro cartelli, che indicano con quattro parole la nascita della creazione dall’En Sof, dalla realtà di Dio al di là delle Sephirot: leggendo dall’alto verso il basso sono: Atziluth (Emanazione), Beriah (Creazione), Yetzirah (Formazione) e Assiah (Azione). La scala potrebbe essere interpretata come quella di Giacobbe, che unisce la trascendenza con la materialità del mondo creato. Su questa semplice scala di legno, tuttavia, non si vedono né angeli né loro rappresentazioni, solo un serpente si inerpica tra i gradini. Nell’Antico Testamento il serpente è l’animale più intelligente e scaltro, porge la mela a Eva e, con il suo aiuto, convince Adamo a mangiare dall’albero della conoscenza.

Anselm Kiefer. Angeli caduti, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024 © Anselm Kiefer. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

Leggi il saggio completo nel catalogo della mostra Anselm Kiefer. Angeli caduti disponibile al bookshop di Palazzo Strozzi, in libreria oppure negli store online.

In copertina: Anselm Kiefer. Angeli caduti, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024 © Anselm Kiefer. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio.

Un medium pittorico per la scultura: le superfici riflettenti di Anish Kapoor

Nel suo saggio presente nel catalogo della mostra Anish Kapoor. Untrue Unreal edito da Marsilio ArteDiane H. Bodart, Maître de conférences di Storia dell’arte moderna all’Università di Poitiers, rilegge le opere specchianti di Kapoor all’interno della lunga disputa sul paragone tra le arti, che tanta letteratura ha prodotto in epoca rinascimentale.

Le sculture specchianti di Anish Kapoor, ampliate alla scala urbana, sfidano le proprietà fondamentali dei monumenti pubblici. Per le dimensioni colossali nonché per la durezza e il peso dei materiali di realizzazione, i monumenti pubblici sono in genere destinati a rimanere saldamente ancorati al suolo, imponendo la loro visibile e costante presenza come qualcosa di inamovibile e immutabile. Presunto vettore di eternità, nel corso della storia hanno dato forma ad alcune delle più importanti espressioni di potere, marcando la topografia cittadina come enormi sigilli di dominio. Le gigantesche sculture riflettenti di Kapoor, come il Cloud Gate (2004) al Millennium Park di Chicago o la più recente opera ai piedi della cosiddetta Jenga Tower (2023), il grattacielo di Herzog & de Meuron al 56 di Leonard Street a New York, levitano leggere come grandi bolle appena atterrate su una piazza o intrappolate da un edificio, capaci di rispondere elasticamente alle asperità del terreno, ma sempre sul punto di scoppiare e svanire. Con la loro forma sfuggente e mutevole mettono in discussione la gravità materiale della scultura, mentre le qualità iper-riflettenti delle superfici in acciaio inossidabile, in cui si riverberano non solo i profili fissi degli edifici, ma anche le condizioni meteorologiche e di luce variabili e il quotidiano viavai urbano, interrompono definitivamente il senso di persistenza immutabile.

Anish Kapoor, Cloud Gate, 2004
Photo Peter J. Schluz ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023
Anish Kapoor, untitled (56 Leonard Street), 2023
Photo Iwan Baan ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

Tra gli esperimenti inaugurali del primo Rinascimento italiano nell’ambito della prospettiva, intesa come nuovo strumento per misurare, dominare e rappresentare il mondo, è inclusa una tavoletta dipinta dall’architetto Filippo Brunelleschi, raffigurante l’alzato del battistero di Firenze visto dalla cattedrale. Nella tavola, la parte superiore posta sopra l’orizzonte non era dipinta bensì ricoperta da una foglia d’argento lucida. Se osservata nella giusta posizione, riflessa in uno specchio di fronte al battistero, l’immagine sulla tavoletta si sovrapponeva perfettamente all’edificio reale, mentre il cielo si rifletteva nella lamina argentea. Dimostrando le potenzialità del nuovo strumento nel proiettare lo spazio architettonico tridimensionale su una superficie piana, Brunelleschi ne riconosceva contemporaneamente i limiti: i movimenti della natura, come la variazione della luce e il passaggio delle nuvole, non potevano essere ridotti alla logica geometrica della griglia prospettica. Gli oggetti specchianti che Kapoor colloca in spazi urbani attivano in modo analogo la tensione tra permanente e mutevole, superandola tuttavia simultaneamente. Infatti, sulla superficie riflettente delle sculture, non solo il cielo ma anche l’aspetto dello skyline cambia a seconda del tempo e dell’ora, includendo inoltre il continuo andirivieni di persone che anima la città.

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze
Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

Collocando la sua pratica all’intersezione tra scultura e pittura e fondendo la dimensione fisica della prima con la qualità illusoria della seconda, Kapoor ripropone i termini dell’antico dibattito comparativo tra le due arti, comunemente noto come “paragone”, che infiammò il discorso artistico durante il Rinascimento italiano. Nel contesto di questa disputa, la supremazia della scultura veniva rivendicata per la verità della sua sostanza fisica, che poteva essere attestata non solo con la visione dell’occhio ma anche con il tocco della mano, mentre la preminenza della pittura si basava sulla sua capacità di rappresentare l’intero mondo visibile, compresi la luce immateriale e i fenomeni atmosferici come nuvole, folgori e riflessi. Le superfici riflettenti sarebbero effettivamente diventate l’arma assoluta della pittura, sia negli scritti dei letterati sia nelle opere dimostrative dei pittori.

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze
Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

In copertina: Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze. Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

I vuoti della Città ideale

Nel suo saggio presente nel catalogo della mostra Anish Kapoor. Untrue Unreal edito da Marsilio ArteMorgan Ng, Assistant Professor al Dipartimento di Storia dell’Arte della Yale University, si ispira alle sculture che Kapoor fa emergere dal terreno per esplorare il mondo ipogeo come immaginato nel Rinascimento.

In questa città nulla sfugge allo sguardo. Teorie di palazzi si susseguono davanti agli occhi: volumi geometrici nitidi, logge ariose, fulgide incrostazioni di marmo, architetture composte da piani e angoli ben definiti, visibili su ogni lato. Il tempio rotondo al centro della piazza è l’unica forma che sfida l’impietosa logica rettilinea della città, i motivi ripetuti della pavimentazione e la sequenza senza fine di campate. Qui le ombre si fanno evanescenti. Si dissolvono sotto l’inarrestabile luce del sole che inonda le superfici lapidee e si riversa nel reticolo di strade, insinuandosi anche nelle fessure più nascoste.

Pittore dell’Italia centrale, Città ideale, 1480-1490 circa?, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche.
Foto Scala, Firenze. Su concessione Ministero Beni e Attività Culturali e del Turismo.

Questa visione urbana, radiosa e inquietante, è il soggetto di un lungo dipinto orizzontale noto come “tavola di Urbino”. L’opera è stata presumibilmente eseguita alla fine del XV secolo da un maestro dell’Italia centrale per la dinastia dei Montefeltro, signori appunto di Urbino, città da cui prende il nome la tavola, ed è oggi esposta nell’antico Palazzo Ducale. La tavola di Urbino ha goduto di uno status leggendario nella storia dell’arte rinascimentale. Generazioni di studiosi hanno visto in esso il manifesto trionfale del senso umanistico della realtà che emerse in quel periodo. A questo soggetto il mondo si sottomette come oggetto di analisi empirica totalizzante, contemplazione razionale e ri-creazione utopica.

Ma la città ideale rivela davvero tutti i suoi segreti? Quali oscure realtà potrebbero celarsi dietro le brillanti superfici di questa fantasia albertiana?

Due pozzi ottagonali identici, posti simmetricamente alle due estremità della piazza, risaltano in primo piano davanti agli occhi dell’osservatore, come a segnare il bordo di un proscenio teatrale. Questi pozzi introducono nell’immagine nuove interferenze ottiche; disturbano la città ideale con vuoti invisibili e insondabili. I pozzi aperti tracciano assi che si immergono verticalmente nelle profondità invisibili del terreno. Dal punto di vista pittorico, producono lo stesso effetto inquietante di strane forme nere sospese in modo incongruente nel vuoto bianco e uniforme di una galleria espositiva modernista. Come tunnel spazio-temporali, queste aperture risucchiano l’immaginazione dell’osservatore da un mondo limpido, reticolare e conoscibile, trascinandola in una realtà alternativa dalle coordinate incerte.

Se potessimo seguire questa pista e scendere nei pozzi, arriveremmo probabilmente a un paesaggio sotterraneo come quello raffigurato da certi artisti e architetti del Quattrocento. Figure come Mariano Taccola da Siena o il suo seguace Francesco di Giorgio Martini, quest’ultimo forse collega del pittore della Città ideale alla corte dei Montefeltro (alcuni hanno addirittura ipotizzato che Francesco stesso possa essere l’autore della tavola). Nei loro disegni e schizzi la visione trascende limiti materiali e corporei. Le viscere della terra rivelano il loro contenuto come in una radiografia. Impenetrabili pareti montuose appaiono come volumi trasparenti che svelano la presenza di gallerie idrauliche e mulini sotterranei.

Macchinario sotterraneo alimentato ad acqua, in Mariano di Jacopo detto Taccola, De ingeneis ac edificiis, libri III-IV (1432-1433), fol. 22r, Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (Palatino 766)
Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Su concessione del Ministero della Cultura

Queste visioni sotterranee trovano una sorprendente controparte nel più ampio immaginario letterario, teologico e artistico del Quattrocento. Si consideri il commento del 1472 alla Divina Commedia dantesca da parte di Antonio di Tuccio Manetti, architetto e intellettuale poliedrico. Manetti si prefisse un’impresa stupefacente: la descrizione topograficamente sistematica di «sito, forma e grandezza dell’Inferno». Con precisione numerica ossessiva, degna di Francesco di Giorgio Martini e delle sue geometrie sotterranee, specificò sia la larghezza dell’apertura sia la profondità di questa «enorme caverna». L’impulso rinascimentale a misurare razionalmente la terra assume qui una forma assurda e grottesca: il progetto di mappare una geografia infernale mai vista.

Mappa di Gerusalemme, del vano infernale e del monte Purgatorio, in Girolamo Benivieni, Dialogo di Antonio Manetti, cittadino fiorentino circa al sito, forma, et misure dello Inferno di Dante Alighieri poeta excellentissimo, Firenze, Filippo di Giunta, 1506, Cornell University
PJ Mode Collection of Persuasive Cartography, Cornell University, Ithaca, New York

In copertina: Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze. Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

La scultura policroma nella Firenze del primo Rinascimento

Nel suo saggio presente nel catalogo della mostra Anish Kapoor. Untrue Unreal edito da Marsilio ArteRachel Boyd, curatrice del Dipartimento di Scultura rinascimentale al Victoria & Albert Museum di Londra, indaga la nostra visione distorta dell’immagine che Firenze offriva nel Rinascimento, evidenziando come le sculture di Kapoor ci invitino a riflettere su questa storia locale e a considerare gli usi e le connotazioni dei pigmenti nella scultura rinascimentale.

Il colore è una caratteristica distintiva del tessuto urbano fiorentino. In una breve passeggiata per la città, lo spettatore si imbatte inevitabilmente in un’impressionate quantità di materiali, dalla pietra serena preferita da Brunelleschi al marmo verde di Prato utilizzato per la facciata romanica di San Miniato al Monte, dal porfido della Giustizia in cima alla colonna di piazza Santa Trinita alle superfici scintillanti di vetro, lapislazzuli, oro e marmo bianco del tabernacolo medievale realizzato da Orcagna per la Madonna di Orsanmichele.

Basilica di San Miniato al Monte, Firenze, XI-XIII secolo.
Foto Scala, Firenze

Quello che vediamo oggi, tuttavia, è solo un’eco della centralità del colore nella cultura artistica della Firenze rinascimentale, poiché molte delle superfici dipinte di sculture e edifici si sono consumate con il tempo e con l’uso o sono state intenzionalmente private delle loro tonalità originali. Le vibranti sculture di pigmenti di Anish Kapoor, una selezione delle quali è inclusa nella mostra in corso a Palazzo Strozzi, invitano a riflettere su questa storia locale e a considerare gli usi e le connotazioni dei pigmenti nella scultura rinascimentale in particolare. Si tratta di una storia che solo ora inizia a essere esplorata, e in alcuni casi celebrata, dagli studiosi del periodo, anche se i pregiudizi nei confronti della scultura policroma – spesso liquidata come poco sofisticata, innaturale, troppo religiosa, sentimentale, appariscente o kitsch – rimangono radicati nella disciplina della storia dell’arte. I pigmenti colorati sono ancora considerati competenza esclusiva dei pittori della prima età moderna, non di coloro che creavano opere tridimensionali.

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze. Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023
Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze. Photo Sara Sassi ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023
Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze. Photo Sara Sassi ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

Scultori famosi come Lorenzo Ghiberti, Donatello e Luca della Robbia lavoravano con il colore in diversi modi. Tutti e tre avevano ricevuto un’educazione da orafi e la loro formazione li rendeva abili non solo nel disegno, nella realizzazione di modelli in cera e argilla come pure nel taglio e nella lucidatura di pietre preziose, ma anche nella smaltatura, una tecnica con cui sostanze vetrose vengono legate a un substrato attraverso l’uso del calore per creare superfici dai colori abbaglianti e riflettenti. Donatello usò una gamma di materiali colorati – dalla cera pigmentata rossa e verde ai frammenti di ceramica smaltata – per creare fondi riflettenti dai colori vivaci per i suoi rilievi in terracotta e marmo.

Donatello, Supplizio di san Giovanni Evangelista nell’olio bollente, 1435-1440 circa, Firenze, Basilica
di San Lorenzo, Sagrestia Vecchia.
Opera Medicea Laurenziana, Firenze. Foto Opificio delle Pietre Dure di Firenze. Su concessione del Ministero della Cultura

Se Donatello sperimentava in modo costante con i materiali, creando una sorprendente gamma di effetti visivi, fu però il suo contemporaneo Luca della Robbia a realizzare una fusione quasi completa tra arte pittorica e scultorea. Negli anni trenta del Quattrocento, quando già vantava una carriera di successo nella lavorazione del marmo e del bronzo, egli sviluppò una nuova e particolare forma di scultura in terracotta rivestita di smalti colorati.

Luca della Robbia, La visitazione, particolare del drappeggio della Vergine, 1440 circa, Pistoia, Chiesa di San Giovanni Fuorcivitas.
Foto Rachel Boyd. Su concessione dell’Ufficio Beni Culturali della Diocesi di Arezzo Cortona Sansepolcro.

Gli strati di colore – pigmenti mescolati per creare smalti, fusi con l’argilla mediante il fuoco e poi ulteriormente abbelliti con una fragile vernice rossa e, in alcuni casi, con l’oro, nonché con gioielli e abiti talvolta aggiunti dai devoti – invitano quindi lo spettatore, oggi come nel Rinascimento, a considerare alcune delle stesse domande suscitate dalle opere di Kapoor: come chiedeva Homi Bhabha più di dieci anni fa, la “pelle” dell’oggetto è sinonimo o emanazione naturale della forma o piuttosto un’aggiunta instabile e inorganica?

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze. Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

Il testo è un estratto dal catalogo Anish Kapoor. Untrue Unreal, curato da Arturo Galansino e pubblicato da Marsilio Arte in occasione della mostra di Palazzo Strozzi. Puoi acquistare il catalogo al bookshop di Palazzo Strozzi, in libreria oppure negli store online.

Vivissimi. Corpi di carne, cera e silicone

Nel suo saggio presente nel catalogo della mostra Anish Kapoor. Untrue Unreal edito da Marsilio ArteFrancesca Borgo, professore alla School of Art History all’Università di St Andrews, ricostruisce la ricerca rinascimentale per la creazione di una statua che viva di vita propria e l’ampio uso della cera, sia nella tradizione artistica fiorentina che nell’arte di Anish Kapoor.

La grande massa di cera color sangue si muove tra le porte del palazzo. Svayambhu (2007), “sorto da sé”, avanza lento, senza preoccuparsi della propria mole: come mosso da una volontà di vita cieca alle circostanze – alla nostra presenza, a quelle porte in cui non è detto riesca a infilarsi – e in questo spingersi prende forma, scorticato dall’attrito con pareti, pavimento e stipiti, lasciando dietro di sé una scia amorfa di macchie. Plasmato non da mano umana, ma dall’accidente: scultura senza autore, senz’altra volontà se non la propria. È un oggetto che simula di essere soggetto; un corpo che si muove, che sporca e lascia tracce, nasce e muore. Il suo scopo non è la verità ma l’artificio, l’illusione dell’inanimato che prende vita: untrue, unreal.

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze.
Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

Quella della statua che si anima e vive di vita propria è una favola impossibile che si racconta spesso. Da Pigmalione in avanti, creare la vita dove la vita manca, suggerendola attraverso il movimento, è una vecchia sfida dell’arte occidentale. L’arte «in sé non è viva ma isprimitrice di cose vive senza vita», scrive Leonardo (1452-1519); l’opera che non riesce a creare un’illusione di movimento nella materia inerte è «due volte morta», nella realtà e nella finzione, «se non le si aggiunge la vivacità dell’atto essa riman morta la seconda volta». Per questo l’artista deve cancellare ogni traccia del proprio fare, l’evidenza della mano e in particolare la visibilità del segno, in modo che l’opera appaia miracolosamente, appunto, “sorta da sé”.

La capacità di moto proprio è – lo dice Aristotele – segnale inconfondibile di un essere vivente. Non è però solo il movimento a rendere Svayambhu un discendente del sogno rinascimentale di animazione dell’inanimato. Più di qualsiasi altro mezzo scultoreo, la cera è infatti legata ai processi della vita: nascita, metamorfosi, dissoluzione, rigenerazione. Al tempo stesso calda e fredda, flessibile e solida, amorfa e polimorfa, la cera sovverte l’aspettativa di immutabilità generalmente associata alla scultura. Risponde al nostro tocco, si scalda e modella: reagisce, e quindi è viva; anche nella storia ovidiana di Pigmalione, lo scultore percepisce l’animazione della statua sotto le dita come cera che si ammorbidisce al sole (Ovidio, Metamorfosi, X, 284). L’innata predisposizione al cambiamento, la docilità e l’arrendevolezza, la capacità metamorfica, hanno a lungo assicurato alla cera un posto di riguardo nella produzione artistica occidentale, in particolare come simulacro intero o parziale del corpo umano, soprattutto nei suoi stati di malattia, morte e lacerazione della carne.

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze.
Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023
Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze.
Photo Sara Sassi ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023
Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze.
Photo Sara Sassi ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

Nel Rinascimento sono di cera le maschere mortuarie e gli ex voto che riproducono singole parti del corpo, malate o già risanate. Ma soprattutto – e in particolare a Firenze – sono di cera le effigi votive che un tempo, ammassate a migliaia, riempivano il santuario della Santissima Annunziata; sempre a Firenze, la cera sarà poi il materiale dei modelli anatomici che faranno del museo della Specola il centro della ceroplastica scientifica, quelle Veneri aperte, sventrate, indagate nei segreti delle viscere.

Lodovico Cigoli, figura maschile detta Lo scorticato, 1598-1600, Firenze, Museo del Bargello.
Photo Luisa Ricciarini/Bridgeman Images

Celebrata già da Plinio per le sue qualità ultra mimetiche, soprattutto quando mischiata a pigmenti colorati, in particolare il rosso (Naturalis historia, XXI, 49), la forza della cera è tale da poter fare addirittura a meno della verosimiglianza. La donazione di una massa di cera grezza, non lavorata e non figurata, corrispondente al peso o alla statura del corpo sofferente e in sua sostituzione, descritta nelle fonti come mensuratio o ponderatio corporis, è un rituale votivo noto almeno dalla fine del XIII secolo. Esposti nei santuari assieme agli ex voto antropomorfi e assolutamente equivalenti dal punto di vista funzionale, questi blocchi di cera parlano del potere della materia stessa nel suggerire la vita, anche senza l’ausilio della mimesi. Presentano ciò che siamo senza immagine, come pura sostanza corporea. Come Svayambhu, la massa di cera non rappresenta un corpo ma lo presenta, attraverso una relazione che fa dell’affinità al vivente una qualità intrinseca del materiale, qualità che non ha nulla a che vedere con una scelta stilistica più o meno figurativa.

Non c’è verità in questa operazione: la cera è per antonomasia il materiale della finzione, dell’artificio, del fingersi altro da sé. È la materia dell’inganno – untrue, unreal – ancora di più quando utilizzata con esiti iperrealistici da artisti e artigiani.

Clemente Susini, La sventrata (det.), 1781-1782,
Firenze, La Specola, Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze.
Photo Raffaello Bencini/Bridgeman Images

Il testo è un estratto dal catalogo Anish Kapoor. Untrue Unreal, curato da Arturo Galansino e pubblicato da Marsilio Arte in occasione della mostra di Palazzo Strozzi. Puoi acquistare il catalogo al bookshop di Palazzo Strozzi, in libreria oppure negli store online.

Oggetto/Non-oggetto

Nel suo saggio presente nel catalogo della mostra Anish Kapoor. Untrue Unreal edito da Marsilio ArteTommaso Mozzati, professore di Storia dell’Arte Moderna all’Università degli Studi di Perugia, evidenzia la secolare vocazione della città di Firenze per la scultura.

Da Charles de Brosses a Joshua Reynolds, da Stendhal a John Ruskin, per arrivare alle esperienze sempre più frequenti della fine del secolo, il centro toscano si rispecchia nella sua galleria di sculture, venendo a identificarsi con quelle immagini, modello espressivo d’assoluta preminenza, testimonianza solida d’una funzione artefatta e archetipica.

Il Marchese de Sade perso nell’infilata delle sale della Galleria degli Uffizi – in Toscana nell’estate-autunno 1775 – avrebbe riunito nei carnets del suo Voyage d’Italie, il ricordo delle antichità restaurate da Michelangelo a quello delle Veneri anatomiche acquisite dal granduca, marmo contro cera, dividendo il racconto tra il capitolo dedicato alla galleria e quello sui moeurs degli abitanti, senza trascurare Gli effetti della peste di Gaetano Giulio Zumbo:

[…] si vede un sepolcro pieno d’innumerevoli cadaveri nei quali è possibile osservare i diversi gradi della decomposizione, dal cadavere di un uomo appena morto a quello completamente divorato da vermi.

Gaetano Giulio Zumbo, Gli effetti della peste, 1691-1695. Museo della Specola, Firenze.
Photo © Nicolò Orsi Battaglini/Bridgeman Images

Tale ribaltamento dell’immagine di Firenze, riscritta all’alba della modernità nella materia stessa dei suoi indici illustri, risuona con l’invito a un artista come Anish Kapoor, in città per la prima, grande mostra monografica, concepita tracciandone il cursus in opere più o meno recenti, dalle superfici immateriali di Newborn (2019) al rosso intenso, in assottigliamento perpetuo, dell’istallazione Svayambhu (2007), dai solidi di To Reflect an Intimate Part of the Red (1981) all’organico Tongue Memory (2016).
Da sempre infatti Kapoor sottolinea l’ambizione di cercare, attraverso il lavoro sul medium, «più di una mera presenza fisica» (nel rispetto della categoria del truly made o «fatto realmente», tratteggiata nel 1998 da Homi K. Bhabha «come l’incontro del materiale con il non-materiale»), il desiderio di tradurre, in «ogni oggetto concreto […] un pari non-oggetto, misterioso».

Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze.
Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023
Anish Kapoor. Untrue Unreal, Palazzo Strozzi, Firenze.
Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

Nella scarsezza di rimandi espliciti agli Old Masters del pantheon occidentale, è in questo senso significativo che il titolo imposto alla colossale realizzazione per la Turbine Hall della Tate Modern inaugurata nell’ottobre del 2002 nell’ambito della Unilever Series rappresenti invece un omaggio inequivocabile. Stando a quanto sottolineato da Thomas Zaunschirm, l’idea di chiamarla Marsyas (2002) fu suscitata in Kapoor dal ricordo della tela di Tiziano consacrata al supplizio del sileno, un capolavoro estremo conservato al Museo Arcivescovile di Kroměříž, che avrebbe fatto un passaggio a Londra per la mostra monografica aperta appena qualche mese dopo negli spazi della National Gallery. Un mito sanguinoso di “svuotamento”, di “scarnificazione”, quello centrato sul supplizio imposto da Apollo al suo concorrente in una gara musicale; ma anche il richiamo a un’assenza, a un negativo, al “non oggetto” costituito dalla pelle di Marsia, come allusa nella membrana in PVC usata da Kapoor per la sua scultura, gonfia di vuoto e d’ombra.

Non a caso, riferendosi al Rinascimento in una rara dichiarazione sul tema condivisa con Donna De Salvo nel 2002, Kapoor avrebbe affermato:

Come oggetto, cercavo di collegarlo alla storia dell’arte e a uno schema mitologico che mi interessa perché oscuro. […] lo trasforma in un corpo. Rovescia lo spazio, non solo quello dell’immaginazione, ma anche quello delle viscere.

È in questa convinzione che il percorso dell’artista avverte la creazione artistica come un passaggio verso «il non familiare – unheimlich – l’insoluto, qualcosa di restituito allo spazio psichico, allo spazio psicologico», laddove il concetto freudiano, quello del “perturbante”, suggerisce «uno spazio che è interiore», rendendo ogni opera un diaframma varcato dallo sguardo di chi le sta di fronte, in grado di ripensarsi attraverso di essa con inedita lucidità.

Anish Kapoor, Marsyas, 2002, Tate Modern, London.
Photo John Riddy ©Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

Il testo è un estratto dal catalogo Anish Kapoor. Untrue Unreal, curato da Arturo Galansino e pubblicato da Marsilio Arte in occasione della mostra di Palazzo Strozzi. Puoi acquistare il catalogo al bookshop di Palazzo Strozzi, in libreria oppure negli store online.

Architettura e illusione a Palazzo Strozzi

Nel suo saggio presente nel catalogo della mostra Anish Kapoor. Untrue Unreal edito da Marsilio ArteDario Donetti, professore di Storia dell’Architettura all’Università degli Studi di Verona, esplora il rapporto tra Palazzo Strozzi, che accoglie l’esposizione, e l’arte di Kapoor.

L’architettura del Rinascimento, a partire dal suo avvio eroico nella Firenze del XV secolo, è nell’intendimento comune l’espressione di una sensibilità spaziale improntata a misura, armonia, organicità. Se vi è un’architettura che può confermarlo, che legittimamente si può riconoscere come un prodotto di quell’idealismo di forme e spazio, è proprio il palazzo progettato per Filippo Strozzi, sul finire del Quattrocento, da Giuliano da Sangallo. Allo stesso tempo, questa dimora monumentale, frutto di ambizioni sociali che sconvolsero il paesaggio urbano fiorentino, è il pretesto per un sottile esercizio di rappresentazione, svolto principalmente su una pelle architettonica felicemente disconnessa dai volumi che riveste. Perciò, per i significati spaziali di cui può caricarsi, diventa particolarmente evocativo il dialogo tra un edificio così radicato nell’immaginario dell’architettura rinascimentale e l’arte di Anish Kapoor, che a più riprese ha messo alla prova i limiti geometrici della scatola muraria, insistendo sulle ambiguità dei rapporti di scala, esplorando soglie e terreni liminali, penetrando il potenziale illusorio della membrana e del rivestimento.

Palazzo Strozzi
Foto Ela Bialkowska OKNOstudio

Le bugne scollate fanno capire che già nelle intenzioni del suo architetto la facciata fa da supporto a una forma di pura rappresentazione: una superficie da disegnare, anch’essa, come la carta; una pelle ambigua che dissimula il costruito e lascia campo all’illusorio o, quantomeno, all’imitazione di un altro da sé. In questo caso, della naturalità dell’architettura lapidea.

Il senso che Anish Kapoor ha dell’architettura ci mostra, con particolare eloquenza, come la pelle posta a rivestire gli oggetti di grande scala – sia che essa consista di membrane plastiche, come Leviathan (2011) o di metalli più o meno politi, pensando a Cloud Gate (2004) o a Memory (2008) – ne possa mascherare l’effettiva consistenza in termini di massa, alterando sostanzialmente la percezione che il corpo ha dello spazio architettonico o della scala dell’intorno urbano. Ma non è forse così per buona parte dell’architettura del Rinascimento e, più in generale, per la stagione del classicismo?

Anish Kapoor, Cloud Gate, 2004
© Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

Anche nell’architettura del Rinascimento, di Sangallo e di Cronaca, e della stessa casa degli Strozzi, sopravvive un elemento in cui l’ornato coincide con la struttura, che disinnesca l’ambiguità della lingua degli ordini, o piuttosto la rivela, appunto, per via di contrasto. È la colonna, lemma centrale del discorso classicista: tanto più se monolitica, cioè matericamente destinata a essere supporto, in modo da affermare senza ambiguità la sua natura tettonica, che è il significato primario di questo segno condiviso.

Nel cortile del palazzo solidi cilindri di pietra si stagliano contro il vuoto per sostenere il pieno dei muri intonacati e, proprio perché isolati, esaltano le origini di una lingua che è ormai divenuta allusione. Danno, anche, la misura dell’edificio: diventano il metro per apprezzarne la scala, per indirizzare (o forzare?) la lettura che i sensi possono produrre dello spazio. Così, come la colonna senza fine, Endless Column (1992), che attraversa in tutta la sua altezza una delle sale angolari di Palazzo Strozzi, nel Rinascimento gli ordini mantengono la loro capacità di plasmare, sul piano della percezione, i rapporti dimensionali tra l’osservatore e l’edificio; di riconoscere nel corpo lo strumento per fare esperienza dei misteri della scala, come già dell’illusione carica di significati della sua architettura.

Palazzo Strozzi, Cortile
Foto James O’Mara
Anish Kapoor, Endless Column, 1992.
Palazzo Strozzi, 2023, foto Ela Bialkowska OKNOstudio
© Anish Kapoor. All rights reserved SIAE, 2023

Il testo è un estratto dal catalogo Anish Kapoor. Untrue Unreal, curato da Arturo Galansino e pubblicato da Marsilio Arte in occasione della mostra di Palazzo Strozzi. Puoi acquistare il catalogo al bookshop di Palazzo Strozzi, in libreria oppure negli store online.

Un’estate in pittura

La mostra Yan Pei-Ming. Pittore di storie dedicata al grande artista franco-cinese, è stata l’occasione perfetta per ampliare l’offerta educativa della Fondazione Palazzo Strozzi sperimentando un nuovo formato di laboratorio dedicato agli adolescenti nel periodo estivo. Il progetto Estate in pittura (10-14 luglio 2023), sostenuto dal Gruppo Beyfin S.p.A., ha permesso a più di cento ragazze e ragazzi tra i 13 e i 17 anni di confrontarsi con le grandi tele di Yan Pei-Ming e scoprire in prima persona le possibilità espressive della pittura. Autoritratti, paesaggi notturni, ritratti di famiglia, personaggi storici e animali della tradizione cinese sono stati il panorama visivo di cinque giornate durante le quali si sono alternati momenti di visita nella sale della mostra e momenti di lavoro singolo e collettivo in laboratorio, guidati nell’esperienza da educatori museali e dell’artista Anna Capolupo.

Martino Margheri (Dipartimento Educazione Fondazione Palazzo Strozzi) in dialogo con Anna Capolupo

Conosciamo il lavoro di Anna Capolupo da diversi anni, il suo approccio alla pittura e all’insegnamento ci piace molto e abbiamo ritenuto che sarebbe stata la persona adatta con cui sviluppare un percorso rivolto agli adolescenti. La conversazione con Anna ha portato alla creazione di Estate in pittura: cinque giornate in cui l’arte del dipingere è stata affrontata da più prospettive. Ci siamo lasciati ispirare dalla mostra di Yan Pei-Ming e ogni giorno abbiamo esplorato un particolare tema: il ritratto e l’autoritratto, la pittura di grandi dimensioni, il rapporto tra colore ed emozioni, luce e oscurità, il valore simbolico degli animali.

Estate in pittura, Palazzo Strozzi, 2023. Foto Sara Sassi

MM
Nel contesto della mostra dedicata a Yan Pei-Ming abbiamo sviluppato un laboratorio estivo indirizzato agli adolescenti. Progetti del genere richiedono un confronto con il progetto curatoriale, le opere esposte, tenendo conto delle caratteristiche dei partecipanti. Come racconteresti l’esperienza di Estate in pittura?

AC
È stata un’esperienza diretta con la mia materia: la pittura.
Era importante che piacesse, volevo riuscire a coinvolgere le ragazze e i ragazzi il più possibile, in modo che fossero totalmente presi da quello che avrebbero fatto. Quando insegni a scuola ti confronti per un anno sempre con gli stessi ragazzi, con Estate in pittura ogni giorno c’era un gruppo diverso e questo elemento ha reso l’attività molto stimolante, anche se ha contribuito a crearmi qualche preoccupazione. All’inizio non sapevo chi avessi davanti e cosa sarebbe potuto succedere, partivo sempre con una leggera apprensione, poi nel corso dell’attività lasciavo che le cose fluissero più liberamente, alla fine mi sono lasciata sorprendere dai lavori che i ragazzi sono stati in grado di realizzare. È stato molto intenso. La cosa più bella è stata il rapporto diretto con i quadri di un pittore importante come Yan Pei-Ming e allo stesso tempo ho colto l’occasione per mostrare tante opere di altri artisti che lavorano con la pittura creando un gioco di rimandi e relazioni.

Estate in pittura, Palazzo Strozzi, 2023. Foto Sara Sassi
Estate in pittura, Palazzo Strozzi, 2023. Foto Sara Sassi

MM
Ogni giornata iniziava con un percorso tra le opere. Come hanno reagito i ragazzi davanti all’osservazione di questi quadri?

AC
Le ragazze e i ragazzi erano magnetizzati e sconvolti dalla grandezza delle opere. Non avevamo mai visto una dimensione materica della pittura così forte. Poi oltre all’aspetto materiale sono emerse osservazioni inerenti ai contenuti dei dipinti, soprattutto quando abbiamo osservato i ritratti di Putin e Zelensky. Qualcuno ha avuto una risposta più sentimentale alla pittura di Pei-Ming, soprattutto osservando l’enorme ritratto della mamma Ma mère (2018). Devo dire che tutta la sala dedicata alla memoria della madre è quella che li ha maggiormente coinvolti emotivamente.

Estate in pittura, Palazzo Strozzi, 2023. Foto Sara Sassi

MM
In fase di progettazione abbiamo individuato cinque percorsi da affrontare in altrettante giornate di lavoro: ritratto e autoritratto; pittura monumentale; pittura da indossare; notturno; animali simbolici. Quali tra queste giornate ha avuto un particolare riscontro?

AC
In occasione di “pittura da indossare” c’è stato un grande coinvolgimento, la partecipazione a quella giornata è stata molto mirata: si erano iscritti ragazze e ragazzi molto preparati, che sapevano già cosa avrebbero voluto dire. Io li ho guidati, ma in maniera minore rispetto alle altre giornate. Mi ha fatto piacere diventare il mezzo con il quale potessero esprimersi. Uscire dal formato della tela o dai confini della carta li ha stimolati molto, è stata una giornata molto intensa, sono anche emersi temi sulle disuguaglianze di genere, violenza sulle donne.

Estate in pittura, Palazzo Strozzi, 2023. Foto Sara Sassi
Estate in pittura, Palazzo Strozzi, 2023. Foto Sara Sassi
Estate in pittura, Palazzo Strozzi, 2023. Foto Sara Sassi

MM
Con più giorni a disposizione ci sono altri temi legati alla pittura che avresti voluto esplorare?

AC
Probabilmente mi sarei dedicata alla natura morta e avrei lavorato anche sul sogno in quanto sono temi che affronto molto nel mio lavoro. Speravo che qualcuno, portandomi le fotografie preparatore della giornata dedicata ai notturni arrivasse con una natura morta, ma non è accaduto, hanno tutti portato paesaggi notturni. Sì, quella sarebbe stata una bella estensione ai temi che abbiamo trattato.

MM
Durante lo svolgimento dei laboratori le ragazze e i ragazzi erano molto concentrati, totalmente assorti nella loro produzione. Credi ci sia stato qualcosa in particolare che abbia favorito questa situazione?

AC
Il tempo è stata una componente importante: un tempo preciso entro cui svolgere l’attività rende tutti molto più concentrati. Probabilmente ha aiutato anche indirizzare verso temi ben precisi ed esplicitare le richieste in maniera diretta. Nonostante i partecipanti cambiassero ogni giorno erano sempre tutti assorti nella produzione; credo che gli adolescenti non siano abituati a questa modalità di lavoro totalizzante, proprio per questo in un’occasione del genere cercano di tirare fuori il meglio di sé. Noi non abbiamo mai dato l’opportunità per distrarsi, c’erano delle richieste precise e tempi da rispettare. Chi si era iscritto al laboratorio aveva deciso di dedicare quel tempo alla pittura, si sono sentiti liberi di farlo scegliendo di lavorare consapevolmente.

Estate in pittura, Palazzo Strozzi, 2023. Foto Sara Sassi

MM
La tua pratica artistica si alterna all’insegnamento a scuola, che è un contesto di educazione formale. A Palazzo Strozzi c’è la possibilità di confrontarsi con l’arte in modo diretto, secondo altre modalità. Secondo la tua esperienza come metteresti in relazione i due diversi ambienti nella pratica educativa?

AC
I musei e le scuole dovrebbero essere più vicini nella quotidianità, soprattutto i licei artistici. Nelle scuole servirebbero degli spazi in cui lavorare direttamente con gli artisti, innescare un coinvolgimento più profondo. È quello che manca di più: sentirci vicini agli artisti, alle mostre, osservare le opere dal vero. Questo modello di laboratorio può aiutare molto i ragazzi e permette loro di far emergere aspetti che rimangono sopiti e inesplorati. A scuola lavoriamo per obiettivi e la parte più importante spesso non è la qualità del lavoro, ma la capacità di rimanere aderenti alla traccia. Le modalità che proponi devono essere uguali per tutti, tenendo conto dei limiti fisici degli spazi e delle attrezzature disponibili, inoltre gli studenti devono essere giudicati, pertanto devono presentare un progetto aderente a canoni ben precisi e questo ti richiede di indirizzarli. Tutto questo è molto diverso rispetto a una pratica artistica che si nutre di libertà. La scuola dovrebbe imparare a integrare maggiormente questo aspetto.

Estate in pittura, Palazzo Strozzi, 2023. Foto Sara Sassi
Estate in pittura, Palazzo Strozzi, 2023. Foto Sara Sassi

MM
Da artista che utilizza prevalentemente la pittura com’è stato confrontarsi con le tele di Yan Pei-Ming?

AC
Di Yan Pei-Ming invidio le dimensioni! È un pittore che ho guardato molto negli anni dell’Accademia, da giovane pittrice non avevo spazi per fare cose del genere e mi rendevo conto dell’immenso lavoro. Oggi è stato uno strano confronto: tecnicamente non è una pittura che seguo con particolare attenzione, ma è stato un artista che ha segnato la mia formazione. Mi ha scosso, guarda quanta forza puoi avere dipingendo.
Mi sarebbe piaciuto vedere una mostra del genere molti anni fa a Firenze.

Estate in pittura, Palazzo Strozzi, 2023. Foto Sara Sassi

MM
Estate in pittura
potrebbe diventare un formato educativo a cadenza annuale. Nel panorama degli artisti italiani della tua generazione, chi vedresti bene nel ruolo di artista/educatore?

AC
Alcuni artisti non riuscirebbero mai a stare in un’aula a parlare di pittura a qualcuno, per alcuni semplicemente stare in una situazione di condivisione con altri artisti è impensabile, figurati con dei ragazzi o dei bambini. In questo processo di condivisione devi riuscire a creare un rapporto di empatia, altrimenti non arrivi a smuovere niente. Se questo aspetto non fa parte del tuo carattere è molto difficile insegnare.
Tra gli artisti della mia generazione ne conosco di molto bravi: Mattia Barbieri è un pittore e scultore molto comunicativo e anche la sua pratica è adatta all’insegnamento. Anche Matteo Coluccia, che lavora con la pittura, la performance e la scultura, ha un approccio multidisciplinare che gli permetterebbe di condurre esperienze di questo tipo. Monica Mazzone e Lucia Veronesi, che sono impegnate anche nell’insegnamento, hanno una pratica di lavoro che permette loro di creare un rapporto stimolante in un contesto educativo.

MM
Anna grazie per questo scambio e il tempo che hai dedicato a questo progetto.

AC
Grazie a voi.

Biografia

Anna Capolupo è nata a Lamezia Terme nel 1983, si diploma all’Accademia delle Belle Arti di Firenze nel 2008. Vive e lavora a Firenze. È vincitrice del Premio Behnoode Foundation, The Others art fair 2022, del Premio Combat Prize nel 2016 e finalista al Premio Terna del 2014. Nel 2019 è stata selezionata al programma di residenze presso LA CASAPARK Art Recidency di New York, la Residenza Facto di Montelupo Fiorentino e ha preso parte al Simposio di Pittura Landina presso Cars a Omegna e al Simposio di Pittura della Fondazione Lac o Le mon a San Cesario di Lecce. Collabora con diverse gallerie e spazi indipendenti sul territorio nazionale.